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Michel Foucault: un’indagine su medicina e potere
Michel Foucault: a survey of medicine and power
di Federico E. Perozziello
Riassunto
Le opere del filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) costituiscono uno dei momenti più interessanti, acuti e complessi della ricerca filosofica del XX secolo. Il suo lavoro sul costituirsi della malattia come oggetto di indagine e contemporaneamente di repressione e di controllo sul corpo rimane un contributo insostituibile per chiunque voglia cercare di comprendere le interazioni e le influenze storiche e sociali che sono alla base di ogni interpretazione della condizione di salute e di quella di malattia nelle diverse epoche. Una possibilità affascinante per chi non voglia limitarsi alla sola conoscenza biologica di questi fenomeni.
Summary
The works of the French philosopher Michel Foucault (1926-1984) constitute one of the most interesting moments, acute and complex philosophical research of the twentieth century. His work on the constitution of the disease as an object of investigation and at the same time of repression and control over the body remains an irreplaceable contribution to anyone who wants to try to understand the interactions and the historical and social influences that are the basis of any interpretation of the health condition and of that disease in different eras. A fascinating opportunity for those who do not feel limited to the only biological knowledge of these phenomena.
Michel Foucault (1926-1984) nacque a Poitiers, nel cuore della Francia, una località simbolo della storia europea grazie alla sconfitta che nel 732 d.C. Carlo Martello inflisse agli Arabi, fermandone l’avanzata in Occidente. Proveniva da una famiglia di consolidate tradizioni mediche. Il padre, il nonno e il bisnonno avevano infatti esercitato questa professione. Dopo aver frequentato il liceo a Parigi, entrò all’École Normale Supérieure della capitale, la più prestigiosa delle scuole universitarie francesi. Nel 1948 si laureò in filosofia e due anni dopo in psicologia. Tra i filosofi che influenzeranno il suo pensiero, dobbiamo ricordare Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. La gioventù di Foucault risultò percorsa da un rapporto conflittuale con la propria omosessualità, un tormento interiore che lo portò a sfiorare più volte il suicidio. Dal 1952 al 1954 lavorò come psicologo presso il reparto di psichiatria di un grande ospedale parigino e gli anni successivi lo vedranno viaggiare in Europa ed oltre per studi e perfezionamenti. (1)
Nel 1963 Foucault pubblicò un primo lavoro dedicato alla storia del sapere medico-scientifico, la Nascita della Clinica: un’archeologia dello sguardo medico (Naissance de la clinique: une archélogie du regard medical). (2) I suoi interessi si concentrarono sull’evoluzione del pensiero medico e scientifico. Cercò di individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia si era costituita come un oggetto di indagine per la scienza. Nei suoi studi venne evidenziato come la ricerca scientifica, l’organizzazione sociale e la visione culturale di un determinato periodo storico avessero dato luogo ad una medicina strettamente connessa alla costruzione e all’utilizzo di luoghi di segregazione per i malati, quali l’ospedale e il manicomio. Luoghi di internamento, simili a prigioni, in cui si sarebbe instaurato un rapporto di potere tra il medico e il paziente.
Da queste ricerche Michel Foucault derivò il convincimento di come la storia non fosse il risultato delle azioni coscienti degli uomini e che il vero campo della ricerca sugli eventi del passato fosse costituito dalle modalità di elaborazione della conoscenza che di volta in volta erano state prese in considerazione. Il pensiero dell’uomo determinava quali fossero il soggetto e l'oggetto della storia che veniva analizzata. Testimoniava i mutamenti del costume e le scelte politiche alla base della costruzione sociale.
Ogni epoca umana era stata caratterizzata da una particolare episteme, una parola greca che potrebbe essere tradotta come verità conoscitiva certa. Una definizione che si manifestava attraverso un sistema di regole sul modo di affrontare la realtà e un insieme di riflessioni su questo campo di indagine. Una metodo di lavoro e di pensiero a volte inconscio, spesso dato per scontato da chi lo utilizzava senza consapevolezza critica. Un sistema di conoscenza articolato, simile a quello che il filosofo americano Thomas Kuhn (1922-1996) avrebbe definito negli stessi anni come paradigma. Uno spazio entro cui operavano le possibilità di indagine scientifica e storica di un determinato periodo e insieme uno strumento culturale attraverso il cui uso si articolavano alcuni saperi caratteristici di ogni epoca. (3)
Foucault sostenne come il passaggio da un'episteme a un'altra nel corso dei secoli non fosse stato un processo continuo, governato da una logica di sviluppo e di perfezionamento. Si sarebbe invece trattato di un mutamento compiuto attraverso salti improvvisi, non completamente spiegabile in modo razionale. Comprendere la visione epistemica di ogni epoca umana e portare alla luce la concezione scientifica di quel periodo storico sarebbe stato compito di quella che Foucault definì come l’archeologia della clinica.
Per studiare il costituirsi ideologico della medicina, il filosofo francese utilizzò una modalità di indagine multidisciplinare, sulla falsariga della tradizione elaborata dalla École des Annales, una scuola di pensiero della metodologia storiografica fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre nel 1929. Questi studiosi avevano introdotto l’indagine interdisciplinare in campo storiografico, utilizzando per l’analisi dei diversi periodi i contributi di saperi e discipline diverse, dalla medicina all’economia, dalla linguistica alla sociologia. Ne era stata espressione una rivista di storiografia, Les Annales, che aveva influenzato generazioni di studiosi e una scuola prestigiosa, con figure di docenti come Fernand Braudel e Jacques Le Goff. (4)
Con la sua Storia della follia nell’Età Classica del 1961-1963, un lavoro concepito inizialmente come una tesi di dottorato e dal titolo originale di Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, Michel Foucault si impegnò in un progetto ambizioso. Decise di raccontare la genesi di una malattia in particolare, la follia, attraverso la ricostruzione del suo profilo storico, la spiegazione della visione ideologica e della comprensione sociale nei tempi che l’avevano vista emergere come una realtà clinica. Foucault superò la metodologia narrativa di tipo cronologico. Lo scopo del filosofo sarebbe consistito nell’utilizzare la vicenda di questa devianza sanitaria e sociale, costituita dalla follia, come una chiave per la comprensione del fenomeno dell’alienazione mentale. L’intento era ambizioso: descrivere i rapporti della follia con la civiltà europea e con le classi sociali nei diversi periodi storici. Michel Foucault definì in un modo personale e originale il periodo storico da lui identificato come Età Classica. Si trattava di un’epoca ideale che avrebbe ricompreso il XVII e buona parte del XVIII secolo. Un periodo contrassegnato da una scelta razionale nell’affrontare lo studio della natura e da una separazione netta con il passato. Un’epoca storica che viene identificata con la nascita della scienza moderna attraverso l’opera teorica e pratica di grandi figure come Francis Bacon, Galileo Galilei e Isaac Newton. Per questo motivo, sarebbe forse meglio parlare di Età della Ragione o di Età Moderna in un senso più tradizionale. (5)
La metodologia di ricerca che venne utilizzata da Foucault risultò essere caratteristica dell’autore, in quanto sarà replicata in altre sue opere. L’approccio multidisciplinare, scientifico, sociale, antropologico, filosofico, artistico e via dicendo, la variabilità delle prospettive di osservazione dei fatti e la coerenza armonica e affascinante dell’indagine storica, sono tutti elementi che contribuiscono a sviluppare l’atteggiamento di Foucault nei confronti della materia trattata. La follia diverrà l’oggetto e al tempo stesso il soggetto del discorso, attraverso il racconto del modo in cui era stata considerata agli albori dell’Età Moderna e lo sviluppo e l’evoluzione di questa concezione attraverso la storia europea. Leggiamo l’affascinate inizio della Storia della Follia:
“Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale. A partire dall’Alto Medioevo, fino al termine delle Crociate, i lebbrosari avevano moltiplicato le loro città maledette su tutta la superficie dell’Europa. Ormai da un secolo il potere regio aveva iniziato a controllare e a riorganizzare l’immensa fortuna rappresentata dai beni fondiari dei lebbrosari. Queste prescrizioni sono applicate dapprima a Parigi, dove il parlamento trasferisce i proventi in questione alle istituzioni dell’Hôpital général …”
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica, (5)
Secondo Foucault, furono le malattie veneree che dettero inizialmente il cambio alla lebbra. Nacque una nuova forma di lebbra che prenderà il posto della prima. Si trattava della sifilide. Tuttavia i lebbrosi conservavano un diritto di soggiornare in quei luoghi di segregazione che venivano lentamente chiusi o ristrutturati, i lazzaretti o lebbrosari. Si trattava ormai di malati poco numerosi per rivendicare i loro miseri privilegi nei confronti della comunità. Le malattie veneree erano dilagate in Europa. Erano giunte come devastatrici dal Nuovo Mondo, si ignorava se originarie di quelle terre o fatte emergere in modo epidemico dall’incontro e dall’interazione tra i nuovi popoli. Queste malattie infettive prenderanno in fretta il posto della lebbra nell’immaginario di colpa legato all’attività sessuale. La malattia venerea si collocava tra le malattie che con più forza esigevano una cura. Era circondata da un insieme di pregiudizi, ma questa condizione modificava solo di poco la comprensione del morbo e la sua terapia, fantasiosa e inefficace, che spaziava dai vapori di mercurio al legno di guaiaco, importato dalle Antille per questo scopo. Rimedi inutili, che muovevano interessi economici cospicui e mantenevano il ricatto della moralità religiosa e statale sul corpo sociale. Sotto l’influsso del mondo dell’internamento, prima riservato ai lebbrosi, la sifilide venne in una certa misura separata da un contesto di diagnosi e di cura. Divenne la protagonista, accanto alla follia, di uno spazio di esclusione, connotato da segnali di riconoscimento del peccato e della colpa che si manifestavano sull’epidermide dei malati. Non era però nell’infezione luetica che secondo Foucault avrebbe dovuto essere ricercata l’eredità della lebbra. Questa riguarderà un fenomeno medico, storico e sociale che prenderà il nome di follia. Nella maggior parte delle città europee era esistito per tutto il Medioevo prima e il Rinascimento poi, un luogo di ospitalità riservato agli alienati, ai diversi, a coloro che non accettavano un ben definito ruolo sociale. I folli non venivano esclusi dalla comunità in cui vivevano ed erano riconosciuti come tali. Dovevano essere mantenuti a spese di tutti perché incapaci di badare a sé stessi. Tra di loro solo gli stranieri, i devianti provenienti da lontano, venivano emarginati. Ogni città accettava di provvedere e farsi carico soltanto di coloro che rientravano nel novero dei propri cittadini. Esistevano dei luoghi di raccolta dove i matti, più numerosi che altrove, non provenivano dalla stessa comunità di origine e che li manteneva abitualmente. Erano i luoghi di pellegrinaggio, dedicati alla devozione e alle guarigioni miracolose. Territori in cui la follia, attraverso la fede, veniva sublimata e accolta grazie ad alcune guarigioni miracolose. Guarigioni che da sole, grazie all’intervento divino, giustificavano la devianza collettiva esercitata dall’insieme dei malati.
In alcune città medievali, come Norimberga, i folli erano mantenuti a spese della comunità. Non erano curati, anche perché di terapie nel senso moderno del termine non esisteva traccia. L’accesso alla chiese era vietato, mentre il diritto ecclesiastico non proibiva a costoro di accostarsi ai sacramenti. Un prete ritenuto insano di mente veniva emarginato con particolare solennità, in quanto la sua diversità doveva ricevere particolare rilievo a causa del ruolo sacrale ricoperto. Secondo Foucault la concezione della follia nel mondo medievale era ancora inserita all’interno dell’antica contrapposizione tra il bene e il male e come una parte della tragicità della condizione umana. Sebbene fosse collocato nello scomodo ruolo dell’alienazione e di una possibile punizione per la devianza, il folle veniva di solito accettato dalla società. L’esclusione da alcuni contesti comunitari non gli precludeva un caratteristico ruolo sociale, legato a compiti simbolici. Situazioni emblematiche, che l’arte e la cultura dell’epoca mettevano in rilievo. Nel Medioevo il folle era anche un personaggio che incarnava uno stereotipo della precarietà dell’esistenza. Un vivere esposto alle guerre, alla fame e alle epidemie, tutti eventi tragici che potevano travolgere le persone da un momento all’altro, come nelle improvvise pestilenze. La follia diveniva ricettacolo delle paure degli altri esseri umani, persone dai comportamenti maggiormente prudenti nel manifestare le loro angosce e il loro eventuale dissenso. Il campo artistico in cui più la figura del folle ebbe risalto e successo fu quello pittorico, un’arte dotata di carica didascalica e d’immediatezza nei contenuti facilmente comprensibile a tutti. Scrisse in proposito Foucault:
“… Sotto la superficie dell’immagine s’insinuavano tanti significati diversi a tal punto che essa non presentava più che un volto enigmatico. E il suo potere non era più di insegnamento, ma di fascinazione …”.
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
Il più visionario di questi artisti fu Hieronymus Bosch (1450-1516), la cui percezione del mondo pareva la stessa di molti folli, capaci di guardare la realtà con occhi diversi dai comuni mortali. Uno dei primi dipinti del Bosch più maturo è l’Estrazione della pietra della follia. Si tratta di un’opera del 1480 in cui è raffigurato un chirurgo che tenta di estrarre dal cranio di uno malato un sasso che avrebbe dovuto trovarsi nell’encefalo dello sfortunato. Una concrezione patologica la quale, secondo la credenza popolare, sarebbe stata responsabile della pazzia. Il medico raffigurato nel dipinto appare come un individuo poco raccomandabile ed inquietante. In piedi, collocato dietro al paziente seduto, il chirurgo utilizza come copricapo un imbuto, testimonianza silenziosa di come colui che affermava di conoscere i misteri del corpo umano non fosse in realtà altro che un ciarlatano. Un saccente più ignorante di colui che stava cercando di curare.
Hieronymus Bosch, L’estrazione della pietra della follia, 1480, (particolare)
Museo del Prado, Madrid.
Un altro dipinto di Bosch che ha come tema la follia è La nave dei Folli, un’opera dipinta tra il 1495 e il 1500 ed ispirata al successo popolare della satira Das Narrenschiff (La nave dei folli) uscita dalla penna dell'umanista alsaziano Sebastian Brandt (1548-1521). Le navi dei folli erano una realtà figlia della tolleranza verso i malati di mente presente nell’Europa di quel periodo. Questi vascelli, spesso con lo scafo dipinto di azzurro, solcavano le fredde e grigie acque del Mare del Nord e del Baltico. Approdavano nelle città fiamminghe e hanseatiche in cui si riteneva che gli alienati imbarcati fossero testimoni di una volontà divina che si esprimeva attraverso le loro persone e storie individuali. In ogni porto in cui approdassero era fornita assistenza ai poveretti che erano a bordo. Persone che risultavano oggetto del timore e insieme di un favore popolare spontaneo verso i diversi che osavano esprimersi liberamente nei confronti del potere costituito ecclesiastico o temporale, utilizzando lo scudo fornito loro dalla devianza. Nel dipinto di Bosch i folli vengono raffigurati come stipati su di una nave che ha per nocchiere un suonatore di cornamusa e utilizza come albero della vela quello della cuccagna.
Museo del Prado, Madrid.
Un altro dipinto di Bosch che ha come tema la follia è La nave dei Folli, un’opera dipinta tra il 1495 e il 1500 ed ispirata al successo popolare della satira Das Narrenschiff (La nave dei folli) uscita dalla penna dell'umanista alsaziano Sebastian Brandt (1548-1521). Le navi dei folli erano una realtà figlia della tolleranza verso i malati di mente presente nell’Europa di quel periodo. Questi vascelli, spesso con lo scafo dipinto di azzurro, solcavano le fredde e grigie acque del Mare del Nord e del Baltico. Approdavano nelle città fiamminghe e hanseatiche in cui si riteneva che gli alienati imbarcati fossero testimoni di una volontà divina che si esprimeva attraverso le loro persone e storie individuali. In ogni porto in cui approdassero era fornita assistenza ai poveretti che erano a bordo. Persone che risultavano oggetto del timore e insieme di un favore popolare spontaneo verso i diversi che osavano esprimersi liberamente nei confronti del potere costituito ecclesiastico o temporale, utilizzando lo scudo fornito loro dalla devianza. Nel dipinto di Bosch i folli vengono raffigurati come stipati su di una nave che ha per nocchiere un suonatore di cornamusa e utilizza come albero della vela quello della cuccagna.
Hieronymus Bosch, La nave dei folli, 1494, Museo del Louvre, Parigi.
Nel libro di Sebastian Brandt, prima del naufragio finale, i folli avranno la ventura di visitare il Paese della Cuccagna, un luogo fantastico, ricco di quel cibo che le frequenti carestie del tempo facevano immaginare ai poveri come il più desiderabile dei miraggi. Alimenti che erano sognati e vissuti come un vero e proprio miraggio dalle moltitudini di diseredati presenti nel continente europeo. Mangiare a sufficienza costituiva infatti un piacere di cui era possibile godere con abbondanza solo in rari momenti dell’esistenza, come viene illustrato con molti ed illuminanti particolari dal dipinto Il banchetto nuziale di Pieter Breughel il Vecchio (1525-1569).
Pieter Breughel il Vecchio (1525-1569), Il banchetto nuziale, 1568,
Kunsthistorisches Museum, Vienna
La navigazione del vascello dei folli rappresentava un rito misterioso e forse inconsapevole, quello dell’imbarco, che riconduceva ad antiche magie e ad interpretazioni cabalistiche delle sacre scritture. Quella che intercorre tra gli ultimi decenni del XV secolo e i primi del XVI fu un epoca fortunata per la follia. L’Europa aveva scoperto da poco il nuovo ed immenso continente americano, ma non era stata in grado di liberarsi dai privilegi e dai condizionamenti della superstizione alimentata dal potere ecclesiastico, oppure dalle prepotenze regali e signorili. Quale altra scelta rimaneva per il diverso se non il fingersi folle? Si poteva magari tessere un elogio raffinato della pazzia, come escogitò e raccontò Erasmo da Rotterdam negli stessi anni, un astuto espediente intellettuale per non finire sul rogo o sul patibolo testimoniando idee che non erano professabili apertamente. Parallelamente al tema del viaggio, come nel Trittico del carro del fieno, troviamo in Hieronymus Bosch anche la tendenza a raffigurare animali fantastici e il più delle volte mostruosi, esseri che a guardare bene non sono altro che degli uomini trasformati in bestie, conseguenza della colpa di aver aderito al male. Incubi uniti a persone dai visi deformi e dagli arti mutilati, rappresentati insieme ad una serie di altre visioni sconcertanti, in cui sono amplificate le paure inconsce della società del tempo e dell’artista, che se ne dichiarava interprete fedele. Bosch vede l’umanità a lui contemporanea dominata dal male che si infiltra in ogni piega dell’esistere. Un male onnipresente, che circonda e si insinua anche nelle immagini religiose. Appare perfino nei ritratti di alcuni soggetti non esplicitamente inquietanti, in dettagli disposti non certo a caso nei suoi dipinti. Ritratti che testimoniano un ammonimento ossessivo a ricordarci la necessità di vegliare e di non stancarsi di sorvegliare l’evoluzione della propria umana natura. Raccomandano l’attenzione per non cedere alle lusinghe esercitate dalla componente malvagia che alberga in ogni uomo oppure ai suggerimenti del demonio. Le figure fantastiche diventano una rappresentazione visibile delle incertezze e dell’incapacità di rispondere in modo consolatorio alle domande della vita. Un disagio che pare a volte essere utilizzato semplicemente per la satira sociale o per l’esaltazione allegorica del mondo alla rovescia carnevalesco, ma che nasconde ben altre e molto più corrosive inquietudini. (6)
Emblematici di queste tematiche sono anche alcuni dipinti di Pieter Brueghel il Vecchio (1525-1569), come La Torre di Babele, testimonianza evidente delle illusioni di potenza dell’uomo sulla natura e il terribile e devastante Il Trionfo della morte dello stesso autore. Anche la teologia finisce per trovarsi coinvolta in questo progetto ambizioso di disvelare il reale attraverso una sua deformazione, utilizzando il paradosso della follia. La ragione umana risulta misera al confronto di quella di Dio, un tentativo mal riuscito di spiegare il mondo che deve accontentarsi dei poveri mezzi forniti dai sensi e dal pensiero, oppure, come se questi non bastassero, farsi soccorrere dalla superstizione. All’uomo rimaneva la consapevolezza angosciante di un’immagine del vivere distorta dalle proprie paure. Un’impotenza di chi si credeva capace di tutto, come testimoniava la torre sghemba e oscenamente colossale eretta a Babilonia e raffigurata da Brueghel. Una costruzione ideata per dominare gli elementi della natura e rivendicare una possibile e blasfema indipendenza da Dio, mentre risospingeva gli esseri umani nell’oscurità e nella confusione dei linguaggi e dei loro comportamenti violenti.
Pieter Breughel il Vecchio (1525-1569), La Grande Torre di Babele,
Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Con l’avvento progressivo dell’Età Moderna e dopo le riflessioni di Montaigne e di Cartesio l’orizzonte sociale ed epistemologico medioevale della follia cominciò a restringersi. La ragione dell’uomo divenne misura e strumento della comprensione di ogni cosa. La scienza sperimentale e la rivalutazione della sapienza della tecnica del fare mutarono il modo di vita delle popolazioni europee e l’atteggiamento conoscitivo nei confronti della realtà delle classi dominanti. L’importanza attribuita ad un pensiero omologabile a quello della maggioranza delle persone e la necessità di promuovere una sicurezza nei comportamenti sociali, divenuti più liberi e complessi, prevalsero sull’interpretazione allegorica e tollerante della follia. Affermò nel suo saggio Foucault:
“… Se l’uomo può sempre essere folle, il pensiero come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero non può essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l’esperienza di “una ragione sragionevole” e di “una sragionevole ragione …”
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
La follia cominciò ad allontanarsi da un ambito di accettazione da parte della comunità. Ben presto i privilegi culturali e il potere di suggestione del folle lasceranno spazio ad una sua interpretazione come una minaccia. Verrà visto come un individuo superfluo, da allontanare e rimuovere dai contesti interpersonali, da emarginare, anche fisicamente. Emblema delle nuove strutture di ricovero, dedicate all’isolamento del diverso e dell’impresentabile, come il povero, il mendicante, la prostituta e via elencando ed accomunando, divenne l’Hôpital Général di Parigi, fondato nel 1656 dal cardinale Giulio Mazzarino, il primo ministro italiano del giovane e inesperto re Luigi XIV. Non si trattava di un luogo di cura, come potremmo ipotizzare dal nome, ma di una gigantesca struttura di reclusione e di confino, posta sotto il potere di un amministratore unico, che si collocava in un rapporto dialettico con la curia vescovile della città in cui l’Hôpital veniva istituito e con i Parlamenti. Questi ultimi, nella Francia dell’Ancien Régime, non erano organi rappresentativi ed elettivi come li intendiamo oggi, ma corti giudiziarie di appello a cui potevano ricorrere privati cittadini, naturalmente se dotati di un censo elevato e in grado di sostenere le spese di giudizio. Venivano chiamati in causa per opporsi alle decisioni sgradite formulate dal potere statale, se si fosse ritenuto di aver subito dei torti e delle prevaricazioni. (8)
L’Hôpital Général non rivestiva funzioni di tipo terapeutico, ma di segregazione sociale.Con il passare dei decenni al suo interno prenderanno forma dei veri e propri reparti ospedalieri di cura, intesi nel senso più moderno del termine. All’inizio si trattò invece di un’istituzione nata dall’assolutismo regio, emanazione del potere assoluto rivendicato dal re di Francia. Un sovrano che ostentava le prerogative di unto da Dio, a partire dalla propria incoronazione che avveniva da secoli in modo sacrale nella cattedrale di Reims. L’Hôpital costituiva uno strumento di pulizia sociale, un contesto che il sovrano istituiva come luogo di detenzione, stravolgendo le regole di antiche leggi e consuetudini più tolleranti verso i devianti. Venne ordinato alle parti del corpo sociale di interagire secondo nuove disposizioni, legate ai poteri di costrizione e repressione della polizia urbana, sotto un controllo di tipo più formale che sostanziale esercitato dai magistrati dei parlamenti. Uomini di legge questi ultimi che si posero a loro volta in competizione con gli enti religiosi di assistenza, i quali avrebbero desiderato continuare a gestire le strutture di ricovero in prima persona, come era avvenuto nel Medioevo. Nacque un sistema complesso di controllo sociale, che venne definito da Foucault come il Terzo stato della repressione. L’Hôpital non era quindi un’istituzione medica, ma un’entità amministrativa dotata di poteri autonomi, che aveva il diritto di applicare proprie leggi all’interno di confini difficilmente valicabili. I malati, specie se poveri e mendicanti, venivano trattati senza rispetto e tutta l’organizzazione ricordava molto da vicino quella di un grande carcere. Una testimonianza importante rimane quella dello psichiatra francese Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772 -1840), che così ci racconta in proposito:
“… Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci…" (9)
Nacque in questo modo l’esperienza dell’internamento di massa, destinata ad essere tipica del modo di pensare e di reagire alla follia e alla diversità durante l’Età Moderna. Le case di correzione cominceranno a diffondersi dappertutto, in Francia come in Europa, utilizzando in modo distorto perfino le idee dell’Illuminismo. Diventeranno uno strumento di potere di un’autorità che non esiterà a ricorrere a misure d’internamento completamente arbitrarie. Si assisterà al ribaltamento delle concezioni etiche e religiose proprie del Medioevo, ad una nuova e diversa presa di posizione, specie da parte della Chiesa Riformata, davanti all’intero problema della carità. (5)
Un tempo la povertà era stata vista come uno strumento di origine divina, una possibilità di scelta dell’uomo per manifestare la fede. Aiutando il povero e compiendo degli atti caritatevoli si poteva guadagnare la salvezza. Con la negazione del valore delle opere compiute, proclamata da Martin Lutero e dalla riforma protestante, da occasione di merito per la grazia divina la povertà era ricaduta nell’ambito di una condizione di colpa. Chi ne era stato colpito manifestava in questo modo le proprie manchevolezze, la propria inadeguatezza morale. Riceveva forse una condanna per dei comportamenti occulti, che dovevano essere stati riprovevoli anche se tenuti segreti. Il povero divenne un condannato allo stato di indigenza e la povertà iniziò a rivestire un ruolo di disapprovazione sociale. Povertà e follia divennero odiose, non tanto per le miserie corporali di cui non era più ammessa la compassione benevola, quanto per la presunzione in essere testimonianza di errori spirituali, di veri e propri peccati che facevano orrore al nuovo e comune sentire che si era venuto a creare nelle nazioni europee protestanti. Al termine di questo percorso di mutazione comportamentale nei confronti della povertà e della diversità si costituirono le grandi case d’internamento, generate dalla laicizzazione della carità, che divenne un compito dello stato e dalla punizione indiretta della miseria. Luoghi di reclusione, il carcere e il coevo ospedale, scaturiti dalle direttive del potere costituito, che condannavano senza appello ad una emarginazione morale, prima ancora che materiale.
La carità venne regolamentata da leggi apposite e la povertà fu considerata una colpa contro l’ordine pubblico. Si elaborarono così per Foucault due diversi modi di intendere la povertà e la follia, che venne giudicata connessa all’indigenza. Da un lato esisteva una modalità sociale retta dal bene, in cui la povertà era sottomessa e si adattava all’ordine costituito che le veniva imposto. Da un altro canto si collocava invece la modalità del male, presidiata da una povertà ribelle e anarchica, che cercava di sfuggire all’ordine sociale. La prima situazione accettava l’internamento e vi trovava una pace relativa ed un sostentamento. La seconda lo rifiutava e rigettando la reclusione, dimostrava di meritarsela:
“… L’opposizione tra poveri buoni e cattivi è essenziale alla struttura e al significato dell’internamento. L’Hôpital général li designa come tali e la follia stessa è ripartita secondo questa dicotomia e può entrare in tal modo, a seconda dell’atteggiamento morale che essa sembra manifestare, tanto nella categoria della beneficenza quanto in quella della repressione …".
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
Un’altra caratteristica ideologica dell’Età Moderna fu di trovare nell’espiazione fornita dal lavoro una giustificazione alla costruzione delle case d’internamento. Nella concezione cristiana il lavoro era una condanna che l’uomo era stato costretto a scontare in seguito al peccato originale e rivestiva un ruolo di penitenza e di riscatto. Lo stesso Adamo era stato destinato al lavoro per procacciarsi il cibo, dopo la sua cacciata dal Paradiso Terrestre. Il povero, il folle, tutti coloro che nella società europea del XVII e XVIII secolo si dichiaravano refrattari alla logica del lavoro, sfidavano in quest’ottica la volontà divina. Nell’etica protestante e calvinista era la grazia che donava la salvazione nell’aldilà. Il successo economico nel mondo dei viventi costituiva una testimonianza certa di questo favore divino, concesso in virtù del lavoro e della sua positività sociale a chi si dichiarava fedele ai comandamenti in modo da meritare la salvezza. Non lavorare costituiva pertanto una forzatura nei confronti della benevolenza di Dio, un mettersi volontariamente in una condizione di colpa e di rifiuto della grazia divina. Nell’Età Moderna la pigrizia, l’indolenza e l’ignavia divennero testimonianza del male e dell’eresia. Di converso sia la follia che i comportamenti alienati ricaddero nell’ambito ideologico di questa concezione. Mentre nel Medioevo la sensibilità e l’atteggiamento positivo verso la follia era legato al riconoscimento dell’esistenza di una sua trascendenza irrazionale verso l’assoluto, una qualità che tutto poteva giustificare, dopo il XVI secolo il folle venne giudicato secondo l’etica moderna del lavoro che costui pervicacemente rifiutava e in virtù della conseguente inutilità sociale. Il matto sarà pertanto condannato a essere escluso dal contesto dei giusti e degli onesti, insieme ai poveri, ai malati cronici, alle prostitute e ai criminali. (5)
La pazzia nel mondo moderno affermava l’incapacità di far parte dell’ordinamento civile, l’autoesclusione dalla comunità di coloro che seguivano le regole dello stato e della fede religiosa. La nascita e il consolidamento degli stati nazionali, nel loro desiderio di affermazione come corpo giuridico indipendente nei confronti del potere transnazionale della chiesa, istituirono nuove leggi con valori assoluti e laici da non violare, pena l’esclusione e l’allontanamento dalla società, sia nel senso di una soppressione fisica che della reclusione a lungo termine. Per questo motivo venne istituita una linea di demarcazione, anche fisica, tra lo spazio sociale lecito e accettato dai più e la follia vera e propria. I pazzi vennero confinati in una zona neutrale, un territorio di reclusione dove potevano manifestare la loro devianza all’oscuro della vista dei più e senza turbare l’ordine costituito. Fu negata loro e per sempre la possibilità e la libertà di rivendicare uno stile di vita alternativo.
Il mondo degli internati era vario e affollato da molteplici personalità e tipologie umane. Entrando in uno qualunque dei numerosi luoghi destinati al contenimento dell’alienazione si potevano incontrare, oltre ai folli, ai criminali e ai dissidenti politici, migliaia di persone che vi erano state rinchiuse a diverso titolo. Vittime a volte sfortunate dell’abuso e della prevaricazione che venivano esercitati con totale discrezionalità. Poteva essere imprigionata ogni forma di comportamento che si scontrasse con la razionalità e rivendicasse il diritto ad una mancanza di omologazione, che disturbasse il quieto vivere dei più, dedito alla produzione e all’osservanza delle leggi.
Anche il libertinaggio, come quello praticato con pervicacia scandalosa dal marchese Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814), sarà visto affine alla problematica della follia e del delirio. Recluso per buona parte della sua vita, de Sade finirà i suoi giorni nell’ospizio di Charenton, condannato a causa della condotta trasgressiva e non per una specifica follia, difficile da dimostrare. Il licenzioso Marchese affermerà e rivendicherà un proprio stile di vita e la fedeltà a delle idee devastanti e impresentabili, da lui professate e sempre respinte dall’autorità, sia al tempo dei re di Francia, che nella nuova e apparentemente più moderna e tollerante società napoleonica. Una devianza intellettuale, quella di de Sade, prima di una diversità vissuta, che lo rese assolutamente non integrabile nel contesto delle diverse epoche della propria esistenza. Saranno pertanto condannate anche la magia, l’alchimia e le forme di sessualità diverse da quelle approvate, che verranno respinte come forme di rifiuto di ragionevolezza e di utilità sociale. L’omosessualità venne punita come devianza e sintomo di follia e anche un gesto tragico e disperato come il suicidio fu posto alla stregua di altre manifestazioni della follia e sottoposto alla pubblica riprovazione:
“… Il tentativo di suicidio indica in sé stesso un disordine dell’anima che bisogna domare con la forza. Non si condannano più coloro che hanno tentato di uccidersi; li si rinchiude e si impone loro un regime che è ad un tempo una punizione ed un mezzo per prevenire un altro tentativo …”.
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
L’empietà e la bestemmia contro la religione professata dalla maggioranza saranno duramente punite da quest’etica laica della correzione forzata. L’esperienza dell’internamento avrà per l’ateo un compito di rieducazione e di rinnovamento morale, che contrasterà un attaccamento riprovevole a credenze scorrette ed errate. La prigionia farà parte di un tempo da dedicare alla riflessione, per potersi adeguare ad una verità ineludibile ed insindacabile, quella rappresentata dalla religione, chiamata a benedire ed approvare l’ordine costituito. Anche i malati di sifilide venivano internati all’Hôpital général, sia a causa dell’oscurità intorno all’origine del male, che in quanto giudicati esseri corrotti. Venivano ritenuti portatori di colpe inconfessate e vittime della punizione lungimirante e riparatrice di Dio. Considerati bisognosi di castigo e di penitenza erano rinchiusi in quanto motivo di scandalo. Aveva scritto in proposito Thierry de Hery, un medico francese vissuto nel XVI Secolo:
“… per questo dunque noi dobbiamo riportare la sua origine [della sifilide] all’indignazione e alla volontà del Creatore di ogni cosa, il quale, per frenare la troppo lasciva, petulante, libidinosa voluttà degli uomini, ha permesso che tale malattia regnasse fra di loro per vendetta e punizione dell’enorme peccato di lussuria …” (10)
La concezione di un male legato al corpo e alla deviazione morale giustificava le costrizioni fisiche universalmente diffuse nella pratica dell’internamento. Occorreva castigare il corpo, anche attraverso metodi coercitivi e crudeli, dal momento che questo legava in modo ineludibile il malato al peccato e costituiva lo strumento e la sua finalità di godimento. Si curava la malattia agendo su di una condizione esistenziale, quella di essere uomini, a cui non si poteva ovviamente sfuggire. Uno stato che favoriva di per sé stessa la devianza e la colpa. Il corpo del folle venne considerato un possibile strumento di peccato e l’ospedale si costituì come un luogo di redenzione, vera o presunta tale, dai peccati della carne e dagli errori della ragione e dello spirito. Si trattava di una logica solo apparentemente di tipo medico, che si proponeva di procurare il bene e la liberazione dal male attraverso la privazione della libertà e le sofferenze inflitte. Nonostante l’associazione tra la medicina e una equilibrata condotta morale fosse praticata fin dall’antica Grecia, pensiamo agli scritti di Ippocrate e di Galeno, attraverso l’istituzione di luoghi di segregazione e cura nell’Europa del XVII secolo questa relazione venne considerata in modo alquanto disinvolto.
Si utilizzò una connotazione morale per giustificare la repressione del diverso e la sua coercizione legata all’obbligo di meritare una salvezza prima morale, poi materiale. L’alienato divenne un personaggio destinatario dell’isolamento sociale, da additare alla riprovazione della maggioranza dei normali. I cittadini rispettosi della legge sentirono il dovere di distaccarsi nei loro comportamenti pubblici e privati da individui come l’omosessuale, l’ateo, la prostituta, il bestemmiatore, il mago, il suicida. Non si trattava più dei personaggi che avevano popolato la Nave dei Folli, rappresentanti di tipologie umane tollerate e bonarie, come il ghiottone, il sensuale, l’orgoglioso, a cui poteva essere applicata una sorta di benevolenza verso i loro difetti, una specie di sorridente comprensione popolare:
“… A partire dal XVII secolo l’uomo fuori dalla ragione è un personaggio concreto, tratto da un mondo sociale reale, giudicato e condannato dalla società [ …] la follia è stata bruscamente investita da un mondo sociale nel quale essa trova il suo luogo privilegiato ed esclusivo di apparizione; le è stato attribuito un territorio limitato dove ognuno può riconoscerla e denunciarla …”
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
Mentre nel Medioevo il problema della follia era ancora inserito nella dialettica del contrasto tra bene e male ed era accettato e giustificato nel segno della tragicità e della imprevedibile precarietà della condizione umana, nell’Età Moderna l’analisi che l’uomo elabora della realtà che lo circonda contrappone in modo radicale la ragione alla non ragione, confinando progressivamente quest’ultima lontano da ogni valore. Venne compiuta una scelta razionale, ma pretenziosa. Ci si propose di eliminare dal contesto sociale la follia, una scelta essa stessa la più impossibile delle strade da percorrere. Pretendere di eliminare la diversità rinchiudendola entro le mura di una prigione vera e propria, seppure mascherata da propositi di beneficenza, risultava altrettanto assurdo che giustificarla senza alcun intervento d’aiuto. Affermare che era possibile definire cosa fosse la follia, in contrasto con la normalità, autorizzava ad una condanna di chiunque decidesse o manifestasse la propria differenza sociale. Una delle parole più adoperate per caratterizzare il comportamento del folle e autorizzarne l’internamento divenne quella di furioso, un aggettivo che rimandava a una condizione di giudizio e di colpevolezza propria della giurisprudenza, piuttosto che della medicina:
“… Nell’internamento esso fa allusione a tutte le forme di violenza che sfuggono alla definizione rigorosa del delitto e alla sua catalogazione giuridica; esso mira ad una specie di regione indifferenziata del disordine, a tutto il dominio oscuro di una rabbia misteriosa che appare al di qua di una possibile condanna…”
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
L’utilizzo di un termine indifferenziato e sfuggevole per sua natura, come la parola furioso, permetteva alcune decisioni poliziesche, autorizzando l’internamento in nome di una presunta sicurezza sociale. In questo modo la pazzia, di cui nel XVIII secolo non esisteva una vera comprensione scientifica, venne apparentata ad altri comportamenti ritenuti trasgressivi e perseguibili, come l’ateismo ostentato oppure il libertinaggio. Come era avvenuto con il Marchese de Sade, si istituzionalizzò la punizione dello scandalo e l’ostentazione della diversità. Un’azione coercitiva che si arrestava spesso davanti alle porte di una nobiltà prudentemente più discreta, che esercitava anch’essa una vita di eccessi, ma al riparo delle mura di lussuose dimore.
La rivoluzione francese avrebbe spazzato via queste isole di permissività, in nome di una moralità borghese che non tollerava la trasgressione che ostacolava la produttività. Non permetteva il libertinaggio deliberato nemmeno tra le mura di casa e considerava questi comportamenti un fattore di disturbo al meccanismo di produzione della ricchezza. Si formò una moralità ancora più restrittiva e oppressiva. Esemplare a questo proposito è la vicenda del Panopticon, il carcere rieducativo ideale auspicato dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832) in un suo scritto del 1791, quando la rivoluzione francese aveva iniziato ad abbattere da tempo le fondamenta e i principi costitutivi dell’Ancien Régime. In questa struttura di reclusione e di rieducazione, di forma per lo più circolare, i detenuti sarebbero stati sorvegliati giorno e notte da un osservatore posto centralmente in un punto di visione privilegiato. Da questo luogo il guardiano avrebbe potuto controllare senza essere visto ogni comportamento dei reclusi, facendo loro avvertire la propria presenza a livello psicologico in ogni momento del giorno e della notte, sebbene non visibile ai prigionieri.
Condizionati in questo modo nei loro comportamenti, i detenuti avrebbero acquisito progressivamente uno stile di vita onesto, da cui non si sarebbero separati nemmeno dopo la liberazione. Avrebbero trascorso il tempo libero lavorando per la collettività, sorvegliati da un invisibile carceriere al cui occhio vigile non sarebbe sfuggito il comportamento deviante. Nonostante questo tipo di virtù, imposta per legge e coercizione senza alcuna possibilità di scelta, suscitasse qualche ben motivata perplessità, le idee di Bentham trovarono seguaci condiscendenti. Molte strutture carcerarie europee, anche in Italia, vennero costruite secondo le intuizioni dell’eccentrico filosofo inglese, che dopo la propria morte si fece imbalsamare e riporre, vestito di tutto punto, in un armadio di legno e vetro, con funzioni di teca. Un recesso da cui poteva magari continuare a partecipare in modo silenzioso alle riunioni del senato accademico dell’University College di Londra.
Numerosi ospedali, edificati nel XIX secolo testimoniarono la possibilità offerta a pochi, grazie agli artifici architettonici, di controllare la vita di molti, in deroga alle libertà individuali e in vista di un presunto bene superiore. Si trattava di istituzioni che divennero promotrici di una vera e propria terapia sociale che veniva imposta nel carcere, oppure offerta in modo relativamente più caritatevole nel caso dell’ospedale. Tuttavia nell’Hôpital général del XVIII secolo invece vigeva la totale assenza di cure specifiche. I medici erano presenti solo ed esclusivamente in virtù di un regio decreto. I folli, i poveri, i devianti sociali, non venivano rinchiusi per guarire da patologie vere o presunte, dal momento che questo problema non si poneva. Tra quelle mura intrise di dolore dovevano terminare i propri giorni secondo le regole e le coercizioni di una vita di reclusione lontana dalla società dei normali. Donne e uomini privati con la forza di ogni possibilità di esercitare una qualsiasi azione di pubblico scandalo:
“… In tutti gli ospedali od ospizi sono stati abbandonati agli alienati alcuni edifici vecchi, cadenti, umidi, mal disposti e non costituiti a questi fine […] In un piccolo numero di ospizi, dove si rinchiudono i prigionieri nei padiglioni detti di forza, questi internati abitano con i prigionieri [comuni] e sono sottoposti allo stesso regime … “
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
Secondo Foucault la follia non era stata ricompresa fino ad allora nel dominio della medicina. Il pazzo non aveva mai avuto bisogno nel passato della certificazione medica per accedere ad uno stato di diversità ed essere riconosciuto come facente parte di un nucleo sociale da delimitare. Per tutto lo scorrere dei secoli del Medioevo lo statuto di folle era risultato estraneo ad una correzione forzata. Le comunità medievali si preoccupavano di perseguitare con rigore i chierici devianti, gli intellettuali, gli eretici, le cui scelte ideologiche potevano minare le fondamenta della fede comune. Per gli eretici non pentiti e recidivi era previsto il rogo, insieme alle opere del loro d’ingegno sovversivo. Ai folli era riservata unicamente un’emarginazione benevola dai processi produttivi ed economici. Si accettava la diversità in quanto manifestazione di un volere divino e imperscrutabile. Con l’Età Moderna i roghi iniziarono a spegnersi. Per un intellettuale scomodo e indipendente come Giordano Bruno si arrivò al supplizio sulla pubblica piazza. La figura di Bruno fu occasione di particolare scandalo e irritazione per la Santa Inquisizione e per il cardinale San Roberto Bellarmino che la presiedeva. L’intelligenza anticonformista e il pensiero tagliente del filosofo di Nola erano portatori di un insegnamento in rotta di collisione con le verità dogmatiche della chiesa della controriforma.
Il sorgere degli stati nazionali nel continente europeo costrinse i sovrani temporali a stabilire delle modalità di convivenza sociale in armonia all’attività lavorativa e commerciale. Il potere del re derivava da una affermata legittimità divina e il sovrano si rendeva conto di come il proprio regno non potesse tollerare dei sudditi impegnati a vivere in modo anarchico o che non riconoscessero, attraverso il proprio comportamento l’autorità regale. La chiesa permetteva ancora all’interno del popolo di Dio rare sacche di devianza, funzionali all’esercizio di un potere temporale e spirituale insieme. Additare l’esempio del diverso come portatore di un comportamento da non imitare risultava in questo caso funzionale ad un ruolo ecclesiastico di guida spirituale e di insegnamento. Forniva la possibilità di mostrarsi caritatevoli e ottenendo in cambio una funzione direttiva per i credenti di ciò che non bisognava essere, di opere che non occorreva fare.
Tuttavia il re di uno stato nazionale non era il papa e il re non poteva concedersi gesti di clemenza gratuiti e frequenti, rivolti poi verso un numero elevato di persone. La medicalizzazione del diverso, la sua reclusione tra le mura di un istituto costituivano un monito efficace perché non divenisse vantaggioso il mostrarsi diverso, il ribellarsi a un progetto educativo comune predisposto dalle nascenti strutture statali, che ambivano a mostrarsi alternative al potere religioso e necessitavano di acquisire una legittimità ed un prestigio autonomi. Il deviante, il diverso, chi forniva degli occasioni di scandalo, vennero confinati pertanto in uno spazio di sicurezza, in cui il loro influsso destabilizzante sulle strutture di relazione sociale e di produzione venne ridotto al minimo e venne reso invisibile, pur continuando questi poveretti ad esistere e a soffrire. Descrivendo i serbatoi di follia e di diversità che si erano venuti a costituire in quegli anni, in osservanza e sostegno all’autorità regale e laica, così scrisse Foucault:
“… Il classicismo non aveva rinchiuso soltanto una sragione astratta, in cui si confondevano folli e libertini, malati e criminali, ma anche una prodigiosa riserva di fantastico, un mondo addormentato di mostri inghiottiti nella notte di Bosch, che un giorno li aveva proferiti. Si direbbe che le fortezze dell’internamento [...] nel momento in cui separavano ragione e sragione alla superficie della società, conservavano in profondità delle immagini in cui l’una e l’altra si mescolavano e si confondevano. Hanno funzionato come una grande memoria a lungo silenziosa; hanno mantenuto nell’ombra una potenza immaginaria che si poteva credere esorcizzata, [...] delle figure proibite che si sono trasmesse intatte dal XVI al XIX secolo …”.
da Michel Foucault, Storia della Follia in Età Classica (5)
Dal momento che i luoghi di internamento erano espressione diretta del potere e che questo si esercitava attraverso leggi e disposizioni, la giurisprudenza prese il sopravvento rispetto alla medicina nel definire il folle. L’Età moderna vide l’intervento preminente del magistrato che ordinava la reclusione, decretando la separazione del diverso dal corpo sociale in una modalità indipendente da quanto avrebbe potuto stabilire il medico. A partire dalla seconda metà del XVII secolo la follia era divenuta un problema di sensibilità sociale ed era stata ritenuta simile al delitto. Lo scandalo e il disordine da essa generati vennero perseguiti attraverso gli strumenti del diritto, modificando attraverso una disposizione regia la concezione classica del diritto romano e di quello canonico che erano stati prima seguiti. Queste due normative riconoscevano al folle un’immunità giuridica dettata da uno stato di impotenza mentale e dalla necessità di dipendere dal soccorso e dall’aiuto altrui per la propria sussistenza. L’internamento del folle si venne a configurare come una punizione di tipo etico e l’intera problematica dell’alienazione slittò dal contesto medico e sanitario verso un ambito di tipo morale, divenne una devianza da perseguire, visto che correggerla e renderla normale non era quasi mai possibile.
Non ci si deve meravigliare dell’approvazione che nel XVII e XVIII secolo accolsero lo stabilirsi di una comunanza tra la follia e la colpa, affermando una stretta parentela tra l’alienazione e la malvagità individuale. Questa valutazione non derivava dalle conclusioni di un sapere scientifico, ma da una presa di posizione ideologica. Una valutazione decisa lucidamente ed a priori dal potere politico. La follia costituiva un vero e proprio fattore di disturbo per la condizione umana, la quale aveva da poco scoperto la ragione e il dubbio sistematico che ne conseguiva attraverso il pensiero di Francis Bacon e René Descartes. La pazzia abbassava l’uomo al livello dell’animale e rinnegava quei valori che fin dall’antichità avevano distinto il genere umano dalle bestie. Valori caratteristici della ragione e della logica, che conferivano all’uomo la dignità di cui l’Età Moderna iniziava a farsi vanto attraverso l’opera dei propri filosofi e scienziati. Uomini che venivano onorati e utilizzati dal potere statale come un baluardo ideologico nei confronti di quello ecclesiastico che aveva dominato fino a poco tempo prima. L’animalità del folle, il proprio autoescludersi deliberato dal contesto sociale, fissavano il limite da non valicare da parte della ragione. Rappresentavano un’onta per il comune sentire della nascente borghesia, per le necessità commerciali e produttive attraverso cui questa classe sociale iniziava ad esercitare il suo nuovo e importante potere:
Tempi nuovi erano alle porte. Le rivoluzioni del 1848 spazzeranno via gli ultimi resti dell’Ancien Régime e si accompagneranno all’affermazione di una scienza medica di origine saldamente positivistica, basata sull’affidamento incondizionato e totale al metodo sperimentale. Una medicina scientifica e razionale che non dimenticherà di procurarsi solidi referenti politici a sostegno, come l’abilità organizzativa e relazionale di un importante scienziato del Secondo Impero, Claude Bernard (1813-1878), starà a dimostrare. Il sapere medico si rinnovava e si poneva nuovi e ambiziosi obiettivi di affrancamento dal dolore e dalle malattie, sostenuti però da un’accorta gestione dei rapporti con il potere e da una rivendicazione della medicina come una forma particolare di dialogo politico. Una modalità che nella Germania imperiale del kaiser sarà sostenuta con la propria indiscussa autorità da Rudolf Virchow (1821-1902). Uno scienziato consapevole di ricoprire un ruolo pubblico prestigioso e che accompagnò la propria importante teoria cellulare alla consapevolezza che la medicina non fosse altro, per dirla con le sue stesse parole, che politica condotta con altri mezzi. Una personalità forte, quella di Virchow, la quale rivendicò per il medico il compito di essere prima di tutto un intellettuale che interveniva per modificare le condizioni di vita della società e che influenzerà per decenni analoghe prese di posizione di alcuni scienziati negli altri grandi stati nazionali europei.
Questa interazione complessa tra medicina e potere risulta utile per comprendere le idee di Foucault a riguardo del ruolo storico svolto dalle classi dirigenti. Un compito di indirizzo e di decisione rivolto verso specifici obiettivi. Un potere che veniva esercitato secondo un’articolazione di tipo reticolare nei diversi ambiti sociali, in cui alcuni attori, come i folli, potevano essere momentaneamente tollerati, oppure venire reclusi, in accordo con la visione dominante nella scienza medica del tempo. Per difendere il proprio ruolo di potere, la medicina sapeva intrecciare con il sentire comune dei rapporti non sempre lineari e trasparenti. Anche la gestione e l’utilizzo delle verità scientifiche venivano attraversati da questa alternanza di visioni ideologiche tra gruppi di potere in lotta tra di loro. Deve essere ricordata l’attività di indirizzo nella ricerca scientifica esercitata dalla committenza. Il ricercatore e lo scienziato vengono indirizzati, a volte coartati nel loro agire in un modo più o meno consapevole, da chi finanzia la sperimentazione. Esemplare fu il caso del geniale chimico Fritz Haber (1868-1934) e del suo lavoro nella Germania di Guglielmo II. Le ricerche di Haber sui fertilizzanti sintetici ebbero, come non trascurabile effetto collaterale, quello di rendere il paese indipendente dalle importazioni di composti azotati. Tuttavia queste sostanze chimiche, oltre che all’agricoltura, servivano a produrre proiettili d’artiglieria ed esplosivi e munizioni in quantità illimitata. Si trattò di una grande scoperta, premiata con il premio Nobel nel 1918, che oltre ad aumentare le rese agricole permise alla Germania di liberarsi dal controllo esercitato sui trasporti marittimi dei fertilizzanti naturali dalla onnipresente flotta inglese e di essere pronta a scatenare la Prima Guerra Mondiale con gli arsenali ben forniti di proiettili.
Il linguista Roman Jakobson (1896-1982) ha descritto l’influenza della committenza nell’elaborazione delle produzioni letterarie dei grandi autori rinascimentali. Perché non valutare un’influenza di questo tipo anche sulla ricerca scientifica? Appare utopistico pensare a un’indipendenza completa del ricercatore medico, che si dimostra invece come un vaso d’argilla tra enormi contenitori di bronzo, ricchi di risorse economiche, quali sono le grandi multinazionali farmaceutiche. Aziende rette dalla logica del profitto, le quali elargiscono finanziamenti unicamente a chi promette risultati coerenti con i loro interessi commerciali. A volte le finalità degli imprenditori della salute corrispondono con quelle dei malati e dei sofferenti, almeno nel loro esito finale dichiarato che dovrebbe consistere nel migliorare lo stato dei pazienti. In realtà il percorso attraverso al quale si arriva a questo prodotto ultimo, consistente nel ristabilimento di una buona condizione di equilibrio tra le varie funzioni biologiche, appare radicalmente differente tra chi produce e fornisce il rimedio, traendone un profitto e chi ne dovrà usufruire. Molti farmaci, anche di provata efficacia, non vengono infatti sintetizzati e distribuiti se non risultano redditizi. Il loro costo di produzione, divenuto nel tempo troppo basso e il brevetto, magari scaduto, non li rendono più remunerativi. Si preferisce abbandonare delle molecole ancora valide e sintetizzabili facilmente, per suggerire l’impiego di farmaci nuovi, ottenuti a prezzo di investimenti elevati e non sempre radicalmente migliorativi rispetto a quelli che vanno a sostituire. Questo risultato avviene attraverso un’opera di convincimento condotta sugli organi di controllo, oppure influenzando i principali organi di informazione scientifica.
Si tratta di meccanismi che l’eredità di Michel Foucault può contribuire a spiegare, grazie alla sua complessità e ricchezza. Non dobbiamo dimenticare la riflessione di questo filosofo sulla capacità del potere di non svolgere solo una funzione repressiva, ma di riuscire a selezionare individui e azioni funzionali ai suoi scopi e politiche, anche e quasi sempre all'insaputa dei diretti interessati. Un potere che si perpetua tollerando e incanalando gli strumenti del consenso e perfino del dissenso. Riemergendo ogni tanto dal magma degli avvenimenti storici in modo nuovo, fornendo modelli esistenziali cui aderire, creando bisogni da soddisfare.
In poche parole, dissimulandosi per continuare ad esistere.
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[email protected]