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La separazione epistemologica della Medicina dalle altre Scienze della Natura
di Federico E. Perozziello
“… Se un uomo potesse mantenersi sempre sul culmine dell'attimo della scelta, se potesse cessare di essere uomo... sarebbe una stoltezza dire che per un uomo può essere troppo tardi per scegliere, perché nel senso più profondo non si potrebbe parlare di una scelta. La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; con la scelta essa sprofonda nella cosa scelta e quando non sceglie, appassisce in consunzione ... Quando si parla di scelta che riguardi una questione di vita, l'individuo in quel medesimo tempo deve vivere e ne segue che è facile, quando rimandi la scelta, di alterarla, nonostante che continui a riflettere e riflettere... Si vede allora che l'impulso interiore della personalità non ha tempo per gli esperimenti spirituali. Esso corre costantemente in avanti, e pone, ora in un modo ora nell'altro, i termini della scelta, sì che la scelta nell'attimo seguente diventa più difficile... Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire: bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità, e che è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Così anche l'uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non lo ha fatto; il che si può anche esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso... Poiché quando si crede che per qualche istante si possa mantenere la propria personalità tersa e nuda, o che, nel senso più stretto, si possa fermare o interrompere la vita personale, si è in errore. La personalità, già prima di scegliere, è interessata alla scelta, e quando la scelta si rimanda, la personalità sceglie incoscientemente e decidono in essa le oscure potenze …”
Søren Kierkegaard, Aut-aut (Enten-Eller), 1843
Gli studi di Louis Pasteur attraverso i quali lo scienziato francese demoliva la teoria della generazione spontanea furono letti da un chirurgo inglese di nome Joseph Lister (1827-1912). Lister lavorava ad Edimburgo, in Scozia, con tutte le frustrazioni e le incertezze che la chirurgia del tempo si portava dietro come un retaggio. La mortalità post operatoria era infatti devastante alla metà del XIX secolo. I chirurghi del tempo amavano operare negli anfiteatri anatomici degli ospedali, davanti ad altri medici o studenti in medicina che potevano osservare la loro tecnica e la loro abilità, consistente nel portare a termine l’intervento nel più breve tempo possibile. La rapidità era infatti una delle poche armi a disposizione. Senza la possibilità di effettuare trasfusioni, con un’anestesia inesistente oppure grossolana, senza alcuna precauzione igienica e con ferri puliti approssimativamente, la sorte del malcapitato paziente era quasi sempre segnata. Pochi giorni dopo la terapia chirurgica insorgevano infezioni devastanti, tra le quali la gangrena e la necrosi setticemica si segnalavano per la loro virulenza e gravità.
Negli anni intorno al 1860 era stato scoperto l’acido fenico, che venne inizialmente utilizzato per bonificare e ridurre gli odori nauseabondi delle fogne cittadine. Prendendo spunto dai lavori di Pasteur sulla fermentazione, Lister ritenne che anche la cancrena gassosa con cui era costretto a misurarsi dopo tanti interventi chirurgici fosse un fenomeno fermentativo. Nel 1865 trattò un caso disperato, un paziente con la frattura esposta di una gamba, utilizzando delle nebulizzazioni di acido fenico sul campo operatorio. Il paziente sopravvisse. Confortato da questa novità Lister continuò i suoi esperimenti, perfezionando le tecniche di pulizia e disinfezione delle ferite, della preparazione igienica del tavolo operatorio e dei ferri chirurgici. I risultati furono così incoraggianti, in termini di riduzione della mortalità post-operatoria, da poterlo mettere in grado di scrivere un articolo memorabile. (26, 27)
Questo lavoro, dal titolo di Antiseptic Principle of the Practice of Surgery, venne pubblicato sul numero di The Lancet del 16 marzo 1867 e venne accolto con molto interesse. Dopo le prime positive esperienze Lister si avviò sulla strada di una maggiore e sempre più diffusa applicazione del nuovo metodo unite ad un suo perfezionamento. Lo denominò antisepsi, sottolineando come l’acido fenico fosse in grado di ridurre le complicanze settiche degli interventi chirurgici. In seguito il chirurgo tedesco Ernst von Bergmann (1836-1907) propose l’utilizzo preventivo sui ferri chirurgici e sul materiale operatorio della metodica di Lister e tale intervento prese il nome di asepsi. Sarà quel chirurgo geniale che rispondeva al nome di William Halstead (1852-1922) ad introdurre infine l’utilizzo dei guanti di gomma come corredo indispensabile del medico. Halsted convinse la Goodyear, la grande industria americana del settore, a produrre un tipo di lattice particolare per tali guanti, studiandone personalmente la forma e la consistenza ottimale.
La sconfitta, o almeno la riduzione del potere patogeno dei germi sulle ferite rivoluzionò la chirurgia, rendendo possibili interventi chirurgici più efficaci e meditati ed invogliando schiere di giovani medici ad intraprendere questa professione. (27)
Si può affermare che gli anni tra la fine del XIX secolo ed il primo decennio del XX furono determinanti nel segnare l’avvento della medicina moderna così come oggi la intendiamo e come essa è stata strutturata. Furono anni eccezionali, in cui il progresso tecnologico che già era stato applicato ad altri campi della vita umana trovò modo di far germogliare delle innovazioni che suscitarono la meraviglia dei contemporanei e di cui ancora oggi viviamo i benefici diretti. Nel 1895 il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen (1845-1913) scoprì casualmente che i raggi emanati da un tubo catodico potevano attraversare lo scheletro ed impressionare una lastra fotografica. La prima radiografia delle ossa di una mano da lui eseguita fu accolta come un autentico miracolo per il quale si scomodò anche il Kaiser Guglielmo II in persona.
L’imperatore finanziò con larghezza di mezzi lo scienziato che recava ulteriore lustro all’immagine pubblica e sociale del Secondo Reich. Nel 1903 l'olandese Willem Einthoven (1860-1927) trovò il modo di registrare l’attività elettrica del cuore e di mettere in relazione questi dati alle variazioni fisiopatologiche di tale organo: nasceva l’elettrocardiografia. Negli anni intorno al 1920, il medico tedesco Hans Berger (1873-1941) inventò un sistema di rilevazione delle onde elettriche generate dai neuroni e dal cervello. Il tracciato su carta che ne derivava prenderà il nome di elettroencefalogramma. La scoperta di nuovi orizzonti nella pratica medica provocò la divisione del sapere medico in diverse branche specialistiche, che si istituzionalizzarono per tramandare e condividere tra di loro un insieme di nozioni il più affidabile possibile. (3, 23)
Se si tiene presente l’introduzione quasi in contemporanea in terapia dei primi farmaci capaci di inibire la crescita batterica, i composti arsenicali scoperti da Paul Erlich, ci si renderà conto pienamente di quanto la medicina tra i due secoli sembrò possedere per i contemporanei un potere inarrestabile di mutare il millenario destino dell’uomo e di renderlo più forte e meno sensibile al dolore ed alla morte. (24, 25)
Eppure tutto questo avveniva proprio in concomitanza con l’immane carneficina della Prima guerra Mondiale, la più inutile delle guerre, se mai ce ne furono di utili, che devastò l’Europa ed aprì una crisi profonda nella società e nella cultura occidentali. Le distruzioni della guerra su scala planetaria, l’instabilità politica e la disgregazione sociale che essa introdusse, portarono a riflessioni profonde sul concetto stesso della morte. Proprio nel momento in cui la schiavitù a questo destino sembrava parzialmente attenuarsi per i successi della medicina, l’uomo introduceva nel suo vivere quotidiano la possibilità dell’auto-annientamento grazie all’assoluta amoralità ed all’enorme potere distruttivo delle armi moderne che si confrontarono nel primo conflitto mondiale.
Fu in quegli anni intorno al 1914 che avvenne la riscoperta di un filosofo danese fino ad allora misconosciuto, che rivelò possedere nel suo pensiero una chiave per comprendere l’angoscia ed il disagio dell’uomo del Novecento. Søren Kierkegaard (1813-1855) analizzò il percorso esistenziale attraverso cui il singolo essere umano veniva dapprima “gettato nel mondo” attraverso la nascita e poi organizzava la propria vita e la propria condizione di unicità seguendo le esperienze irripetibili della propria esistenza. (5, 10)
Kierkegaard sgombrò ogni equivoco dal concetto di morte. Questo costituiva l’angoscia suprema, un avvenimento unico e non rappresentabile che riguardava il singolo e lui soltanto. L’ineluttabilità della morte e l’impossibilità di conoscere in anticipo il momento del suo giungere permetteva che il pensiero di essa fosse presente, in modo più o meno consapevole, in ogni azione umana.
La morte diventava così l’orizzonte esistenziale della condizione umana ed il presupposto perché l’uomo potesse aderire all’idea di una fede in Dio. (5) Una fede di cui aveva bisogno quell’umanità massacrata nelle trincee del Carso o nel fango delle Somme. Presa a cannonate nelle pianure della Polonia, in anni grigi di inutili massacri in nome di strumentali ideali nazionalistici. Nello stesso periodo in cui la medicina stupiva il mondo attraverso successi continui e l’opera di grandi ricercatori sembrava promettere un futuro non troppo lontano di affrancamento dal dolore, la fisica stava conducendo da tempo un processo di revisione critica dei risultati cui era giunta. La Fisica quantistica e la Teoria della Relatività avevano aperto delle crepe enormi nella modalità di affrontare i problemi posti dallo studio della natura attraverso gli strumenti della fisica classica di tipo meccanicistico e sperimentale, elaborata da Galileo Galilei ed Isaac Newton. (7, 23)
Il modo con cui la fisica riusciva ad interpretare il mondo e la sua complessità stava diventando una conoscenza di tipo probabilistico. Il filo conduttore che attraversava queste molteplici esperienze di tanti ricercatori era l’idea che le scienze fisiche e la matematica non fossero necessariamente sempre certe ed indubitabili. (15, 16)
La rivoluzione concettuale di questo momento storico comportava l’affermazione che queste discipline non fossero vere in senso assoluto, ma unicamente esatte, come suggerirà il filosofo Martin Heidegger (1889-1976) qualche anno dopo. (11)
Le scienze potevano essere utili, potevano rivendicare una condizione di verità ontologica, ma non potevano più affermare, come aveva predicato Newton, di essere la dimostrazione armonica di un ordinamento superiore divino e di un’armonia universali. La complessità dei fenomeni naturali, la loro variabilità temporale, l’impossibilità di invertire il flusso dell’entropia termodinamica che portava verso il massimo disordine molecolare, comportavano l’impossibilità di ricostruire perfettamente a ritroso lo svolgersi degli eventi indagati. Resero consapevole buona parte della comunità scientifica dell’assoluta relatività epistemologica dei risultati da essa raggiunti. (9, 16)
Questa revisione critica non si verificò in campo medico. Questo era un sapere antico e contemporaneamente troppo giovane ed entusiasta dei risultati che stava ottenendo per accontentarsi delle sole probabilità di certezza generate da un acceso dibattito epistemologico. Dopo secoli di approssimazione e di insuccessi clamorosi, valga per tutti gli esempi l’impossibilità di comprendere e controllare con razionalità un fenomeno come la peste, dopo le confusioni con la magia e l’alchimia, i medici riuscivano per la prima volta nella loro storia a fornire delle spiegazioni attendibili intorno alle cause di tante malattie. Attraverso questa conoscenza trovavano i rimedi idonei per curarle o almeno controllarle. (17, 18)
Oggetto dei loro straordinari successi erano le malattie infettive, flagelli che per secoli avevano seminato morte e devastazione nella civiltà umana, facendo più vittime delle guerre. (26, 27) Si trattava di una comprensione magari ancora un po’ approssimativa, forse bisognosa di essere raffinata e migliorata nei rimedi proposti, ma che funzionavano nella maggior parte degli individui su cui questi venivano provati e sperimentati, migliorando significativamente la durata e la qualità della vita di milioni di persone. Forse, per spiegare in parte questo processo di separazione tra la medicina, la filosofia e l’epistemologia, accorre rifarsi ad una definizione articolata che Immanuel Kant diede della medicina e dei suoi rapporti con la filosofia. Lo storico della scienza tedesco Dietrich von Engelhardt ha individuato nel pensiero kantiano il punto cruciale di un’interpretazione filosofica della medicina. (28)
La medicina per Kant era, come la filosofia, una cultura di tipo morale (moralischeKultur), vale a dire un tentativo di trattare in modo morale la fisicità dell’uomo e del suo rapporto con il dolore e la morte. All’inizio del Novecento la medicina parve dimenticare questo insegnamento. Accecata in senso epistemologico dai suoi stessi successi, dimenticò ogni altra modalità di interpretazione nel suo campo di studi che non fosse quella meccanicistica e sperimentale. Questo modo di studiare l’uomo e le sue malattie funzionava, magari sarebbe stato perfezionabile, ma sembrava ottenere risultati indiscutibili. La grande industria farmaceutica che stava nascendo non era troppo interessata ad un dibattito epistemologico, ma a prodotti che funzionassero e risolvessero i problemi di salute delle persone, almeno in un orizzonte temporale ben delimitato, realizzando profitti sempre più consistenti. La fama, la ricchezza, il prestigio e la gratificazione sociale che circondarono molti celebri medici della seconda parte dell’Ottocento e del primo Novecento, pensiamo a Robert Koch ed allo stesso Joseph Lister, una cui statua è collocata oggi in una piazza di Londra, costituirono il riconoscimento più evidente dell’importanza sociale che il ruolo del medico veniva ad assumere. (19)
A questo punto, sarà opportuno ricordarsi di chi comprese tale processo mentre si stava svolgendo e seppe raccontarlo con ironia. Una constatazione che possiamo trovare in una brillante commedia francese del 1923, scritta da Jules Romains (1885-1972): Knock ou le Triomphe de la médecine (Knock o il trionfo della medicina). Per chi non la conoscesse, ecco la vicenda narrata in questa piéce ricca d’ironia e di sarcasmo.
Il dott. Knock, sconosciuto ai più, ma fornito di una prestigiosa laurea in medicina, arriva un bel giorno nel villaggio di St. Maurice come successore del medico precedente, il dottor Parpalaid. Questi, stanco della routine del piccolo paese dove tutti godono di ottima salute, si è trasferito in una grande città come Lione per valorizzare la propria competenza professionale ed emergere socialmente. Dai modi affabili, ma sicuro di sé e mosso da un’inquietante e dichiarato proposito: “…non esistono persone sane, ma solo malati inconsapevoli di esserlo…”, Knock riesce ad instillare lentamente in tutti gli abitanti del villaggio il terrore della malattia e con essa un sentimento di destabilizzante precarietà esistenziale.
Il suo studio si affolla sempre di più, magari approfittando delle visite e dei consulti del lunedì, attività che il bravo medico elargisce gratuitamente a scopo promozionale. Così, mosso da una relativa convenienza ed da una passione fervida ed instancabile per il suo mestiere e la sua arte, Knock finisce per scoprire nei suoi assistiti le malattie più strane e più rare e fornire loro tutta una serie di diagnosi brillanti. Tutti lo rispettano, convinti della sua bravura come medico e del suo acume diagnostico. In breve le tranquille abitudini di vita del paese sono sovvertite da una serie di malattie presunte, più o meno reali. Oltre a Knock, anche il farmacista, l’accorto dott. Mousquet, appare assai soddisfatto della situazione e collabora con il medico per circoscrivere i malanni e fornire l’assistenza necessaria a tanti bisognosi. Così Knock racconta l’esito della sua missione ad uno sconcertato dott. Parpalaid:
[Knock] “… La prima volta che mi sono piantato qui davanti [alla finestra], il giorno dopo del mio arrivo, non ero molto fiero, sentivo che la mia presenza non aveva gran peso, che questo vasto territorio esisteva indipendentemente da me e dai miei simili. Ora invece sono a mio agio come un organista davanti al suo grande organo. In duecentocinquanta di queste case - non le possiamo vedere tutte a causa del fogliame – ci sono duecentocinquanta camere dove qualcuno s'inchina alla medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo steso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso di tipo medico. La notte è ancora più bello, perché ci sono le luci. Quasi tutte le luci sono mie. I non malati dormono nelle tenebre. Sono invisibili o non ci sono più. Ma i malati hanno dovuto tenere la loro lampada accesa. La notte elimina tutto quello che è rimasto ai margini della medicina, me ne nasconde il fastidio e la sfida. Il paesaggio del villaggio lascia il posto ad una specie di firmamento del quale io sono il creatore continuo. Non vi dico poi delle campane. Pensate che per tutti i miei pazienti il primo compito delle campane è quello di ricordare le mie prescrizioni, poiché esse ne sono la voce. Pensate che tra qualche minuto suoneranno le dieci, che per tutti i miei malati le dieci sono la seconda misurazione della temperatura rettale…”
da Jules Romains, Knock o il trionfo della medicina, atto III, 1932
Il povero dott. Parpalaid viene richiamato in paese dalla gravità della situazione, ma subirà il medesimo destino dei suoi vecchi assistiti. Si convincerà di essere lui stesso malato e dovrà, sul finire della commedia, attendere perplesso e preoccupato gli eventi che il futuro gli riserverà. Sarebbe bastato poco per impedire a Knock di prevalere, magari pretendere una maggiore severità nei criteri diagnostici adottati, delle prove evidenti ed indubitabili delle malattie annunciate, ma la cortina fumogena del suo linguaggio ed il fascino personale con cui dispensa un sapere che promette soluzioni mirabolanti incantano gli abitanti del paese. Uno dei messaggi meno rassicuranti trasmessi da quest’opera letteraria è costituito dal fatto che convenga sentirsi malati e pensare a trovare qualcuno che risolva i propri problemi esistenziali piuttosto che lottare con le difficoltà della vita. E’ dunque meglio credere a qualcosa che a niente ed una medicina esercitata senza scrupoli e misura, senza rispetto e fiducia nell’equilibrio delle funzioni del malato e nella sua capacità naturale di guarigione può sostituirsi alla religione ed alle ideologie, facendo leva sulla paura della morte e sul dolore dell’uomo. Questa è l’amara morale che possiamo trarre dalla commedia di Jules Romains.
Dobbiamo a questo punto considerare con attenzione le motivazioni e le cause che hanno deviato la medicina tra Ottocento e Novecento su di una traiettoria rigidamente “scientifica”, senza quasi ripensamenti autocritici sul proprio ruolo e sui propri limiti rispetto alle altre discipline legate allo studio della natura. Come abbiamo accennato in precedenza, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento la matematica e soprattutto la fisica vivono un momento di grande ripensamento epistemologico. (2, 14) Esemplare a questo proposito è quanto avvenne per la Termodinamica. All’inizio del XIX secolo il marchese di Laplace aveva affermato che era possibile, in linea teorica, comprendere la meccanica dell’universo se si fosse potuto disporre di tutti gli elementi che entravano in relazione di tra di loro nel moto planetario e stellare. Anche se Laplace non era credente, si trattava di una manifestazione di fiducia nelle idee di Galileo e Newton.
Soprattutto la visione del creato profondamente religiosa che Newton aveva sostenuto era alla base di una concezione dell’universo come un insieme retto da una logica trascendente, in esso connaturata, che l’uomo aveva il compito di svelare. Le leggi della natura erano dunque già perfettamente inscritte nel creato e facevano funzionare la macchina-mondo in attesa che qualcuno fosse così acuto da poterle scoprire. (3, 24) Secondo Newton, questa visione ideologica avrebbe portato indirettamente lo scienziato a rendersi conto che esisteva un’intelligenza superiore che aveva già ordinato e previsto tutto. Tuttavia, Laplace stesso si accorse di qualcosa che non quadrava nello studio dei fenomeni termici. Certamente egli non poteva pensare che il moto delle molecole mosse dal calore e quello dei pianeti fossero la medesima cosa, ma fiducioso nelle leggi della matematica e della fisica Laplace si trincerò dietro l’affermazione che fosse solo l’ignoranza umana ad impedire di comprendere l’unitarietà e la logica di un fenomeno termico. (24)
Una qualche legge universale che regolasse tali fenomeni doveva pur esserci, nonostante la loro apparente e disordinata complessità. Il tempo e gli studi l’avrebbero resa manifesta ed evidente. Anche se nei movimenti caotici, come quelli delle molecole riscaldate, sembrava regnasse il caso, Laplace si sentì di affermare che si trattava solo di effettuare un sufficiente aggiustamento statistico e matematico nelle misurazioni dei fenomeni e poi ogni variabile del sistema sarebbe stata compresa in un quadro generale più ampio.
Jean Baptiste Fourier (1768-1830) nel 1822, quasi negli stessi anni, divulgherà un suo libro che recava il titolo di Théorie analytique de la chaleur. In questo volume affermerà che lo scienziato non doveva cercare delle ipotesi generali quando esponeva le sue teorie, ma unicamente individuare le cause in stretta relazione con il fenomeno studiato. Doveva semplicemente cercare di capire le leggi alla base dei processi naturali, di cui avrebbe dovuto sforzarsi di conoscere chiaramente le singole cause. (3, 24) Quanto alla unificazione di queste leggi in un contesto più ampio di comprensione dei fenomeni naturali, tutto sarebbe stato demandato alla matematica, ottenendo però in questo modo un piano di integrazione più teorico che sostanziale. Le idee di Fourier furono accolte con grande attenzione e considerazione dalla nascente filosofia positivistica. Auguste Comte stesso paragonò l’opera di Fourier a quella di Newton. Si trattava invece di un’apertura di credito logico-matematica nella forma, ma sostanzialmente metafisica nella sostanza, ad una interpretazione della realtà basata sulla credenza di una razionalità e prevedibilità intrinseca della natura. (5)
Le successive ricerche nel campo della Termodinamica e dell’Elettromagnetismo diedero luogo a dei considerevoli ripensamenti. Negli anni intorno al 1840 James Prescott Joule (1818-1889) dimostrò l’inesistenza del così detto fluido calorico, un’entità fisica mai ben definita che avrebbe dovuto fare da tramite nella cessione del calore da un corpo caldo ad uno più freddo. Attraverso l’Effetto Joule formulato dal fisico inglese, il calore prodotto veniva invece direttamente correlato all’energia impiegata. Si riuscì a distinguere tra calore, come energia misurabile e temperatura, proprietà che regolava il trasferimento di calore da un sistema ad un altro. (24) Esito di questi studi e delle ricerche di Rudolf Clausius (1822-1888) e William Thomson (1824-1907), detto anche Lord Kelvin, furono la formulazione dei due principi classici della termodinamica, che di seguito ricordiamo:
· il primo principio si basava sulle esperienze di James Prescott Joule e sanciva l’equivalenza tra l’energia utilizzata ed il calore generato e di conseguenza la relazione lineare che si collocava tra calore e lavoro. Il primo principio stabiliva l’equivalenza tra le varie forme di energia, cioè il principio generale di conservazione dell'energia. Un corpo poteva perdere una parte della sua energia meccanica se acquistava energia sotto forma di energia termica. Un blocco che scivolasse su di un piano inclinato, attraverso l’attrito perdeva energia potenziale, non acquistando una corrispondente quantità di energia cinetica. Tuttavia si riscaldava, in quanto la sua energia interna aumentava in proporzione.
· il secondo principio, che era la conseguenza delle ricerche di Lord Kelvin e Clausius, affermava che la dispersione di energia, che avveniva tra due sistemi a temperatura differente, avrebbe dato luogo ad un aumento di Entropia. Questa poteva essere definita come una funzione che misurasse il grado di disordine molecolare di un sistema. La sua conseguenza pratica, dovuta alla dispersione del calore, consisteva nella mancanza di possibilità di costruire motori dal rendimento energetico pari al 100% dell’energia impiegata, perché una parte dell’energia stessa non sarebbe mai stata riutilizzabile dal sistema che l’aveva generata.
Il termine Entropia, che fu coniato da Clausius stesso, recava in sé un elemento rivoluzionario. Se le molecole di un sistema sottoposto a riscaldamento assumevano comportamenti che non erano prevedibili secondo le formule della fisica classica, ne conseguiva che la ricerca scientifica doveva in fin dei conti accontentarsi di valutare fenomeni di tipo probabilistico e non sempre assolutamente certi e riproducibili con esattezza. In più, se si ammetteva che le molecole fossero libere di disporsi e muoversi come meglio ritenessero, l’aspetto finalistico della scienza naturale e la presunzione newtoniana di scoprire un disegno superiore e logico in tutto il creato, divenivano una mera illusione, un’ipotesi consolatoria non sostenuta da dati di fatto. Il sistema universo dunque si muoveva e funzionava, ma sembrava purtroppo farlo a sua discrezione, infischiandosene delle aspettative di chi lo stava studiando. (9, 14)
Quest’ipotesi portò ad accese polemiche tra i sostenitori della fisica classica e quelli dell’originalità di questi nuovi elementi forniti dalla Termodinamica.
Il grande fisico austriaco Ludwing Boltzmann (1844-1906) dimostrò che qualsiasi fosse stata la distribuzione iniziale delle singole velocità delle molecole di un gas riscaldato, tali singole velocità, per effetti delle collisioni molecolari, tendevano a distribuirsi secondo una legge probabilistica universale. (20)
Per misurare questa caratteristica, Boltzmann ideò una famosa formula matematica, scolpita sulla sua tomba in un cimitero di Vienna, dopo la morte dello scienziato. Questi, che soffriva probabilmente di un disturbo bipolare, si era tolto la vita in un alberghetto istriano in un momento di depressione. La formula di Boltzmann è così descritta:
S = k log W
dove S è l’entropia, W è la probabilità dello stato di dispersione molecolare e k una costante, detta appunto costante di Boltzmann. (20) L’evoluzione della termodinamica portò ad una radicale differenziazione nel modo di intendere i fenomeni fisici, alla fisica macroscopica, osservabile direttamente con sicurezza, si contrapponeva ora una fisica delle particelle e della realtà microscopica, governata da connotazioni probabilistiche.
Questa concezione fu fortemente osteggiata da alcuni fisici europei di quel tempo, come Ernst Mach, che avevano una visione conoscitiva di tipo più strettamente empirista e basata sui fenomeni fisici che essi stessi potevano verificare. Boltzmann difese con forza le sue teorie, arrivando a scrivere:
“…Nessuna equazione può tradurre esattamente un evento, quale esso sia. Essa idealizza necessariamente e va al di là dell’esperienza. Il fatto che ciò sia inevitabile deriva dal processo stesso del nostro pensiero, che consiste nell’aggiungere qualcosa all’esperienza e nel formulare un’immagine mentale. La fenomenologia non dovrebbe dunque vantarsi di non superare l’esperienza ma al contrario incitarci a farlo quanto più possibile…” (20)
Il lavoro di Boltzmann fu criticato ferocemente dai suoi colleghi e la frustrazione ed il sentimento di solitudine che ne derivarono all’autore furono probabilmente tra le cause del suo suicidio. Il tempo e le successive scoperte della fisica moderna avrebbero però reso giustizia a questo genio incompreso dai suoi contemporanei. Ci si era ancora una volta dimenticati di un’antica lezione formulata da Immanuel Kant e che sarà bene rileggere:
“… Non è una cosa strana… dopo che una scienza ha subito una lunga elaborazione, quando si pensa di essere giunti chissà a quali meravigliosi risultati, che venga uno e ponga la questione se e come tale scienza sia in genere possibile. Perché la ragione umana è così pronta nelle sue costruzioni che già più volte ha eretto l’edificio e poi ha dovuto di nuovo demolirlo per vedere come erano costruite le fondamenta… Alcuni, nella superba coscienza del loro antico e perciò creduto legittimo possesso, con i loro compendi metafisici alla mano, guarderanno verso colui con disprezzo: altri, che non sono capaci di vedere se non ciò che è uguale a ciò che altre volte hanno veduto, non lo comprenderanno …”
da Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Milano, 1995 (13)
Nei primi anni del Novecento altre due importanti rivoluzioni scientifiche minarono definitivamente la teoria meccanicistica propria della fisica classica newtoniana: la Teoria della Relatività e quella della Fisica Quantistica. Senza entrare nei particolari, che esulano dagli scopi di questo saggio, bisogna sottolineare come queste due teorie affermassero concetti dalle conseguenze ineludibili. Con la Teoria della Relatività, Albert Einstein (1879-1955) dimostrò che la meccanica classica del moto dei corpi nello spazio si basava su due presupposti teorici errati, basati sul fatto che la misura del tempo fra gli eventi osservati fosse indipendente dal moto dell'osservatore e che la misura dello spazio fra due punti di un sistema di riferimento fosse indipendente anch’essa dal moto di chi visionava questo fenomeno.
Secondo quanto scoperto da Einstein, le leggi in base alle quali avvenivano i fenomeni della fisica erano stabili, ma lo spazio ed il tempo che interessavano i fenomeni osservati erano invece relativi al moto ed al sistema di riferimento in cui si trovava l’osservatore che li stava studiando. (7) Negli anni intorno al 1901 poi, un altro fisico tedesco di nome Max Planck (1858-1947), scoprì che lo scambio energetico tra la materia e la radiazione elettromagnetica che interagiva con essa avveniva in modo tale che l’energia in atto veniva assorbita od irradiata secondo quantità definite o dei multipli esatti di queste grandezze, che presero il nome di quanta. L'energia di un quantum dipendeva dalla frequenza della radiazione (v) e da una costante (h), denominata in seguito Costante di Planck (E=hv).
Nasceva così la meccanica quantistica, che diede luogo ad un complesso di teorie fisiche formulate nella prima metà del Novecento, che descrivevano il comportamento della materia a livello microscopico. Essa permetteva di interpretare fenomeni che non potevano comunemente essere spiegati ricorrendo alla meccanica classica. Caratteristica fondamentale della Meccanica Quantistica era il fatto che in essa lo stato e l'evoluzione di un sistema fisico venissero descritti in maniera intrinsecamente probabilistica. (14, 23) Spesso si ricorreva ad una visualizzazione del comportamento di una particella di materia in termini di funzione d'onda oppure di onda di probabilità. Mentre la Fisica si rendeva conto di dover intraprendere un diverso percorso conoscitivo e di dover abbandonare una strada lastricata da troppe certezze e dalla consolatoria consapevolezza di un disegno progettuale per tutto l’universo, la medicina di inizio secolo imboccò senza alcun ripensamento una deriva meccanicistica e sperimentale. Si trattava di una visione del mondo e della scienza che avrebbe comportato l’adesione incondizionata di generazioni di medici ad alcuni presupposti ideologici fondamentali ed abbastanza semplici, che devono ora essere ricordati:
- il metodo sperimentale e la sua affidabilità e riproducibilità sono alla base della conoscenza dei fenomeni biologici;
- le funzioni del corpo umano sono studiabili e riproducibili in laboratorio e negli animali da esperimento come modalità per un numero infinito di prove sperimentali relative alle funzioni fisiologiche ed al verificarsi delle alterazioni patologiche;
- la malattia è dovuta ad alterazioni della normale fisiologia del corpo umano;
- le terapie sono basate sul riconoscimento di un rapporto certo di causa/effetto nel verificarsi di un determinato fenomeno biologico;
- le terapie sono basate su di un intervento capace di annullare gli effetti di tali cause patogene o di prevenirle, modificando i parametri biologici dell’organismo.
Come si vede, si era costituita una visione speculativa e programmatica di tipo strettamente meccanicistico. Il corpo umano veniva considerato come una macchina estremamente complessa, ma pur sempre una macchina basata su delle regole di funzionamento prevedibili. Basterà conoscere sempre più approfonditamente una serie di fattori per poter prevedere con sufficiente sicurezza sia i termini del normale lavoro di un organismo biologico che le modalità del verificarsi di un suo guasto. De la Mettrie ed il Marchese di Laplace potevano ritenersi soddisfatti. (18, 26)
Il convincimento di poter comprendere un insieme complesso allo studio, una volta conosciuti tutti i fattori in gioco e tutti gli elementi da cui era costituito, tornava alla ribalta nell’esame dei fenomeni biologici. Tale convinzione veniva accettata proprio quando una sicurezza analoga cominciava ad essere abbandonata dalle altre discipline scientifiche.
Appare evidente come questa visione scientifica della medicina di fine Ottocento fosse da un punto di vista epistemologico del tutto anacronistica e contro corrente rispetto alle riflessioni delle altre scienze naturali. Ma la cosa che lascia ancora più perplessi è il fatto che tale convinzione riguardasse un oggetto di studio, l’uomo appunto, che racchiudeva e racchiude in sé molti più elementi di indeterminazione e di approssimazione delle orbite di un pianeta o di due corpi metallici che in laboratorio vengano sottoposti ad una misurazione controllata del loro calore ed alla registrazione delle modifiche successive di questo stato di riscaldamento o raffreddamento. (10, 23)
Quali furono i fattori che influenzarono questa scelta meccanicistico-sperimentale della medicina? Cercherò di illustrarne alcuni.
Per prima cosa, bisogna considerare la gratificazione umana e la considerazione sociale conferita dal successo delle nuove scoperte nel campo delle malattie infettive. Apprendere che la Peste, la Tubercolosi, il Colera ed altri simili flagelli non erano dovuti ad un fato casuale ed imperscrutabile, ma a degli agenti patogeni ben precisi ed individuabili, i microbi, permise di limitare per la prima volta nella storia umana l’effetto delle malattie infettive epidemiche. (27) Questo indubbio successo stabilizzò la durata della vita umana, rendendola nel Mondo Occidentale meno esposta ad una morte precoce ed inspiegabile. La riduzione del carico di angoscia esistenziale che ne derivò, in una società che si avviava all’omologazione di massa dei suoi valori e delle sue credenze, fu determinante. Poiché si teme di più ciò che non si conosce, tutta la società civile ne ricevette un impulso positivo a credere con maggiore ottimismo nel possibile raggiungimento di risultati straordinari in termini di salute. (9, 18)
Un secondo fattore importante fu costituito dagli sviluppi rapidi e quasi travolgenti delle nuove tecnologie. Le ferrovie, i piroscafi, il telegrafo, resero il mondo più piccolo e le comunicazioni interumane più rapide ed efficaci. Le informazioni mediche iniziarono ad essere condivise rapidamente tra le università e gli istituti di ricerca. Si trattava di una modalità di comunicazione che aveva bisogno di un linguaggio comune e condiviso, che esprimesse a sua volta i risultati di una metodologia scientifica accettata universalmente come autorevole: il metodo sperimentale. Non c’era ragione di dubitare di un sistema di conoscenza che era stata formulato e raffinato da un lungo processo ideologico-filosofico durato decenni e che aveva avuto l’avallo ed il sostegno di filosofi come Auguste Comte e di medici autorevoli come Claude Bernard. La scelta fu compiuta senza ripensamenti e la medicina divenne essenzialmente una medicina sperimentale. La sua lingua, il linguaggio condiviso con cui trasmettere i risultati ottenuti, fu una sola: la statistica. (14, 23)
Il terzo fattore di promozione fu di tipo essenzialmente politico ed economico. Già nel caso di Paul Erlich e del suo innovativo farmaco per la terapia della sifilide la potente industria chimica tedesca intervenne con tutto il suo enorme peso economico. I nuovi farmaci e vaccini promettevano importanti guadagni. L’abilità dei chimici tedeschi raggiunse una fama di quasi onnipotenza, la stessa che permise a Fritz Haber di sintetizzare l’ammoniaca direttamente dall’azoto e di progettare l’estrazione dell’oro dalle acque dell’Oceano Atlantico per pagare gli ingenti debiti di guerra di cui la Germania doveva farsi carico dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Le autorità incoraggiarono spesso tali aspettative e premiarono gli scienziati più geniali con riconoscimenti in denaro ed onori.
Come abbiamo visto, il Kaiser incoraggiò e finanziò Röentgen per la sua scoperta dei raggi X, mentre Robert Koch ricevette un premio di centomila marchi per la scoperta del vibrione colerico, oltre la direzione dell’Istituto d’Igiene di Berlino. Anche in Francia Pasteur divenne un eroe nazionale. L’entusiasmo popolare per la scoperta del vaccino anti-rabbico promosse una pubblica sottoscrizione che permise la costruzione dell’Istituto Pasteur, un grande complesso di edifici destinato alla ricerca scientifica in medicina e biologia, nella cui cripta sotterranea fu sepolto l’uomo che aveva sconfitto la Rabbia e l’Antrace. (27) Una divinizzazione in terra ed una santificazione laica per un esponente, naturalmente inconsapevole, di una nuova religione che prometteva una vita lunga e felice a tutti, se solo la scienza medica avesse avuto abbastanza mezzi ed uomini da dedicare alla ricerca.
Vittima di questo stato di cose fu il cambiamento del rapporto tra medico e paziente. Non sarà più la mano e l’occhio del medico ad indagare il segno ed il sintomo sulla superficie del corpo umano, ma questo inizierà ad essere conosciuto in modo mediato dagli strumenti tecnologici che verranno applicati a questo stesso corpo. Se l’uomo era una complessa macchina di carne e sangue, perché non scrutarlo attraverso altre macchine sempre più perfezionate ed affidabili? Le radiografie, l’elettrocardiogramma, gli esami del sangue, costituiranno dei cardini conoscitivi obiettivi a cui si dovrà prestare attenzione anche e contro ogni evidenza clinica, un’evidenza che potrà essere considerata fallace se non sempre completamente riconducibile alla statistica ed a quanto indicato da una macchina. Questa rivoluzione tecnologica comportava anche l’introduzione di diversi strumenti comunicativi. Il rapporto medico-paziente si trasformava anche attraverso la nascita di una diversa e migliore consapevolezza scientifica da parte del paziente stesso. Le persone della classe dominante, la borghesia europea, leggevano con attenzione giornali e libri ricchi di materiale illustrativo delle conquiste scientifiche moderne. Non erano più un destinatario di atti medici imperscrutabili, generati da figure autorevoli e circondate da una fama di venerazione quasi magica, come era avvenuto per i medici del passato. Stava nascendo una categoria di soggetti consumatori coscienti del prodotto salute, i quali, sulla spinta dell’imperante visione meccanicista e positivista, ritenevano che ogni fenomeno naturale fosse spiegabile e riducibile ad essere compreso dalla ragione umana. Anche le malattie avrebbero seguito questa strada e si sarebbero sottomesse al potere investigativo dell’uomo. Un uomo medico e scienziato che iniziava ad essere giudicato secondo la sua professionalità. Questa sua qualità si traduceva nel numero di morti evitabili e di successi terapeutici cui assisteva un pubblico consapevole, un pubblico ormai costituito da consumatori informati.
Utilizzare le macchine rendeva il rapporto con la diagnostica diverso e più mediato. Il medico diventava il soggetto interpretante di un qualcosa che non veniva più osservato dai suoi sensi, ma da uno strumento. I valori che questo forniva, una radiografia, un elettrocardiogramma, un semplice striscio di sangue sul vetrino di un microscopio, dovevano essere interpretati e compresi a loro volta, prima di essere trasmessi per sommi capi al paziente ed utilizzati per il suo bene. Si venne a costituire in questo modo un distacco crescente tra la figura umana del medico e quella autorevole dello scienziato e la persona del malato. Il medico elevava dinanzi a sé la barriera di un linguaggio tecnico poco decifrabile per i non addetti ai lavori, uno strumento comunicativo indispensabile per trasmettere con affidabilità e precisione le nozioni apprese, ma contemporaneamente uno scudo difensivo dietro al quale nascondere la propria impotenza davanti a determinate situazioni non gestibili attraverso la base conoscitiva del tempo.
Lentamente il paziente finì per perdere molte delle sue connotazioni umane, per divenire invece ciò che veniva ad essere rappresentato dagli esami e dal laboratorio: un insieme di dati, un collage vivente delle funzioni della macchina-uomo, su cui il medico interveniva, dopo aver riconosciuto il malfunzionamento e le sue cause, riportando i parametri alterati alla normalità. Alla base di questa nuova visione scientifica o piuttosto scientista del medico vi erano due convinzioni di fondo. La prima riguardava il concetto stesso di fatto scientifico. Se esaminiamo questo concetto con attenzione ci renderemo conto di come una cosa sia il fatto scientifico in sé ed un’altra la realtà scientifica che esso rappresenta. Per i medici del primo Novecento, che aderivano incondizionatamente all’ipotesi meccanicista dello studio dei fenomeni naturali, l’idea di fatto scientifico come qualcosa di evidente, perché riproducibile e misurabile, non poteva neppure lontanamente essere messa in discussione. (8)
Francois Magendie e Claude Bernard avevano sostenuto come i fatti non dovessero essere interpretati, perché questi si interpretavano da soli. (17) La natura era un libro aperto, un libro fotografico verrebbe da aggiungere, eloquente e manifesto nei suoi contenuti, simile forse alle immagini del grande fotografo Gaspard-Félix Nadar (1820-1910), uno dei padri della fotografia come strumento di comunicazione. I suoi ritratti delle personalità della cultura e dell’arte del tempo venivano considerati come una vera e propria consacrazione dell’importanza sociale e della fama della persona ritratta. Amico del grande scrittore di fantascienza e di romanzi avventurosi Jules Verne, Nadar era considerato un maître a penser. Si dilettava lui stesso di scienza ed esperimenti scientifici. Fece costruire ad esempio un grande aerostato, le cui prove in volo furono disastrose. Si convinse così che il futuro del volo umano sarebbe stato del “più pesante dell’aria” e donò somme considerevoli per patrocinare le ricerche in tal senso. La Parigi di Nadar era quella gaudente e spensierata in cui veniva costruita la Torre Eiffel, una città che credeva fortemente in un futuro migliore, almeno per chi poteva vantare la fortuna di essere un suo cittadino e di non avere preoccupazioni economiche.
Tuttavia, nel 1906 il fisico e storico della scienza francese Pierre Duhem (1861-1916), in un’epoca contemporanea alle vicende che stiamo illustrando, aveva formulato nei sui scritti l’idea che non esistessero prove sperimentali di una teoria scientifica completamente prive di ambiguità. (8) Secondo Duhem questo avveniva perché ogni ipotesi scientifica era costruita su di una serie di fenomeni e di teorie tra loro interconnessi ed a volte interdipendenti. Le teorie scientifiche davano pertanto luogo a strutture complesse di conoscenza della realtà, dove ci si poteva trovare di fronte ad un edificio speculativo razionale nel suo complesso, ma costruito con i mattoni di numerose teorie accessorie.
Non era quindi possibile confrontare e provare una singola teoria senza tener conto di tutte le altre su cui era stata sinergicamente costruita e che a loro volta la giustificavano. (6) Le tesi del fisico francese potevano costituire un’intuizione molto suggestiva anche a riguardo del sapere medico e dello studio della biologia in particolare. Potevano spiegare l’ambiguità dei risultati che gli esperimenti medici a volte generavano, potevano far comprendere come l’omeostasi di un sistema complesso, come quello costituito dal corpo umano, dovesse per forza giovarsi di teorie esplicative non solo meccanicistiche, ma anche dotate di un maggior tasso di tolleranza probabilistica.
Potevano far intuire infine come, nella complessa realtà costituita da un organismo vivente, fenomeni più semplici potessero avvenire secondo la regola della causa/effetto, ma il complesso generato dal loro insieme finisse per costituire un qualcosa di diverso dalla semplice somma algebrica delle singole parti. Un’altra convinzione che caratterizzò l’evoluzione metodologica della medicina del primo novecento fu costituita dall’accettare come indubitabile il fatto che solo le relazioni del tipo causa/effetto potessero essere considerate scientifiche. (14) Questo convincimento fu assunto come se si trattasse di un dogma, di un’ipotesi di lavoro che non potesse essere messa mai in discussione, pena il crollo di tutto il castello della medicina sperimentale. (23)
Eppure tale asserzione partiva dalla considerazione che lo scorrere del tempo fosse un processo di tipo completamente lineare, uno scorrere dal passato verso il futuro senza alcuna deviazione. Quindi, ciò che veniva osservato nel presente non poteva essere altro che la conseguenza di quello che era avvenuto nel passato, in fisica, in chimica, in biologia…
Veniva così ignorata la lezione epistemologica di David Hume sulla conoscenza della realtà come fenomeno di aspettativa psicologica del verificarsi dei fenomeni naturali, ma soprattutto non suscitò alcun dubbio od incertezza nel lavoro dei medici del primo Novecento la Teoria della Relatività che Albert Einstein formulò nel 1905 e la nascita della Fisica Quantistica. Come abbiamo in precedenza accennato, per queste teorie il tempo veniva a perdere un andamento strettamente lineare, dal passato al futuro, ma era influenzato dalla posizione nello spazio dell’osservatore, come pure dalla natura stessa delle particelle di energia e della materia, che si rifiutavano a volte di obbedire completamente a delle semplici leggi di causa/effetto. (14, 23)
Non dobbiamo infierire troppo sui medici di quel tempo. L’opinione pubblica europea loro contemporanea si sentiva al centro indiscusso del mondo e le scoperte della medicina di quei decenni avevano ottenuto successi troppo importanti per essere minimamente messe in discussione nella loro natura epistemologica più fine. (19, 24) Forse il motivo di fondo misconosciuto di tale comportamento fu che il campo dell’ignoto in Biologia e Medicina era relativamente più vasto, molto più vasto di quanto si fosse riusciti ad intuire nella chimica, nella fisica e nella matematica. All’inizio del Novecento grandi piroscafi solcavano ormai gli oceani con regolarità, le ferrovie collegavano le nazioni civilizzate, la luce elettrica già illuminava le città dell’Europa e degli Stati Uniti d’America. Le case degli uomini di quel tempo non erano molto differenti, quanto a confort e comodità, dalle nostre abitazioni odierne. Le nazioni europee ostentavano grandi eserciti e flotte onnipresenti in ogni angolo del globo, un mondo spartito colonialmente sia per lo sfruttamento delle risorse minerarie che con il pretesto un po’ ipocrita di portare la civiltà a popolazioni di “inferiore” condizione. Le grandi corazzate che solcavano i mari e potevano imporre la volontà delle grandi potenze in ogni parte del pianeta erano armate con cannoni enormi, capaci di sparare a venti o trenta chilometri di distanza proiettili di una potenza distruttiva mai vista.
L’Europa poteva guardare con orgoglio e ed un po’ di presunzione al resto del mondo, anche se bisogna considerare che, in fondo, la medicina era rimasta un po’ indietro rispetto a tutte le altre scienze e soprattutto alla tecnica. La durata della vita media era di circa 50 anni, ma si poteva ancora morire per cause che oggi riterremmo banali, come una polmonite od un ascesso dentario, perché non esistevano ancora gli antibiotici. Quanto alle malattie cardiovascolari, lo sfigmomanometro era stato inventato nel 1896 dal grande clinico italiano Scipione Riva Rocci (1863-1937) e sarebbero dovuti trascorrere molti anni per poter disporre di farmaci efficaci per la terapia dell’ipertensione arteriosa, una malattia di cui non si conosceva neppure l’esistenza prima dell’invenzione di quest’apparecchio. (22, 23) Molte delle ragioni che abbiamo elencato e descritto furono alla base della totale adesione della medicina moderna al metodo sperimentale. Un metodo che era nato per lo studio delle scienze fisiche e che parve allora l’unica strada da seguire. Oggi il corpo umano ci si presenta in una modalità assai più complessa, attraverso la sua fine interazione tra i vari organi ed apparati. L’articolata biochimica della vita, la conoscenza del codice genetico e la raffinatezza dei meccanismi di omeostasi sono meglio conosciuti.
Possiamo allora cominciare a porci qualche interrogativo epistemologico sulla metodologia generale della ricerca scientifica in medicina e ci si può concedere il lusso di cercare di vedere oltre la rassicurante sequenza causa/effetto. (14, 23)
I nostri colleghi medici di un secolo fa non erano in grado di poter immaginare uno sviluppo metodologico differente da quello che tante soddisfazioni e risultati concreti stava cominciando ad offrire. Una critica va semmai posta al fatto che la medicina si sia trascinata per tutto il Novecento nell’accettazione acritica di verità scientifiche affermate in modo dogmatico. Pensiamo solo ad un lavoro del 2005 comparso sul prestigioso Jama (Journal of the American Medical Association), la rivista dell’Associazione dei medici americani. Dopo una rivisitazione dei lavori prodotti utilizzando naturalmente la metodologia sperimentale e pubblicati nel periodo dal 1990 al 2003 da alcuni tra i maggiori giornali scientifici internazionali, studi citati almeno altre mille volte in diverse pubblicazioni per la loro autorevolezza, si evidenziava come un lavoro su tre di questi venisse smentito da ricerche successive… (4, 12)
Eppure agli inizi del Novecento il metodo sperimentale di derivazione meccanicistica sembrava funzionare perfettamente in medicina e dava luogo a risultati concreti ed apprezzabili, ad un aumento della vita media e ad un miglioramento delle condizioni generali di esistenza delle popolazioni. Così, per quanto riguardava la medicina e le scienze biologiche, la resa dei conti con le problematiche epistemologiche ancora aperte fu accantonata. Ci si incamminò fiduciosi lungo una strada che sembrava promettere solo un lungo percorso di successi, fedeli al credo del Marchese di Laplace che bisognasse solo accrescere il numero di nozioni possedute su di un determinato fenomeno naturale perché questo fosse perfettamente compreso.
L’avvento della termodinamica, differentemente dalla fisica newtoniana di tipo deterministico, segnalò i limiti posti dalla natura all’utilizzo delle sue forze. (20) Si iniziò nello studio della fisica a considerare la complessità di un sistema nel suo insieme. La fisica tentò di comprendere la significatività del movimento e del ruolo di ogni singola molecola in un sistema complesso e finì con il dichiararsi provvisoriamente sconfitta. La biologia e la medicina invece utilizzarono il metodo sperimentale attraverso una storicizzazione progressiva delle loro scoperte ed una specie di gerarchizzazione dei costituenti fondamentali di un organismo vivente. Si partì dal presupposto di esattezza di un modello universale, la macchina uomo, che doveva funzionare perfettamente perché immagine di un modello naturale più ampio e si procedette a “smontare” il sistema. Paradossalmente, il determinismo positivistico finì per appoggiarsi sulla convinzione che bastasse comprendere le singole parti e la fisiologia dei vari organi ed apparati per capire come funzionasse il tutto di un organismo vivente. Con la totale aderenza all'ideale conoscitivo illimitato di una scienza ideale, piuttosto che reale, si identificò la possibilità concessa alla medicina di prevedere l'evoluzione futura di ogni fenomeno biologico a partire dalla conoscenza certa delle leggi che lo regolassero. Ma le cose non stavano così.
Jules-Henri Poincaré (1854-1912) intuiva in quegli stessi anni la Teoria del Caos, che Edward Norton Lorenz (1917-2008) avrebbe poi portato alle sue estreme conseguenze. (21, 25) Semplificando al massimo tale teoria, questa affermava come in un sistema fisico complesso, dove interagivano tre o più componenti o corpi, risultasse impossibile fare previsioni sufficientemente esatte sull’esito finale di una tale interazione. Questo avveniva perché era sufficiente una piccola variazione iniziale nello stato del sistema per dare luogo alla possibilità di esiti finali ogni volta differenti, esiti che una serie di equazioni dimostravano in modo inequivocabile.
Nell’epoca di passaggio tra Ottocento e Novecento la medicina iniziò a costruire il suo futuro avendo a che fare con il più complesso dei sistemi conosciuti, l’uomo, senza tenere conto di alcuni di questi presupposti epistemologici che abbiamo descritto. La cosa non sarebbe rimasta senza conseguenze, seppure mascherata dai successi indubitabili che si stavano raggiungendo e che si sarebbero comunque ottenuti nella lotta alle malattie ed al dolore.
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(2009) Federico E. Perozziello
Søren Kierkegaard, Aut-aut (Enten-Eller), 1843
Gli studi di Louis Pasteur attraverso i quali lo scienziato francese demoliva la teoria della generazione spontanea furono letti da un chirurgo inglese di nome Joseph Lister (1827-1912). Lister lavorava ad Edimburgo, in Scozia, con tutte le frustrazioni e le incertezze che la chirurgia del tempo si portava dietro come un retaggio. La mortalità post operatoria era infatti devastante alla metà del XIX secolo. I chirurghi del tempo amavano operare negli anfiteatri anatomici degli ospedali, davanti ad altri medici o studenti in medicina che potevano osservare la loro tecnica e la loro abilità, consistente nel portare a termine l’intervento nel più breve tempo possibile. La rapidità era infatti una delle poche armi a disposizione. Senza la possibilità di effettuare trasfusioni, con un’anestesia inesistente oppure grossolana, senza alcuna precauzione igienica e con ferri puliti approssimativamente, la sorte del malcapitato paziente era quasi sempre segnata. Pochi giorni dopo la terapia chirurgica insorgevano infezioni devastanti, tra le quali la gangrena e la necrosi setticemica si segnalavano per la loro virulenza e gravità.
Negli anni intorno al 1860 era stato scoperto l’acido fenico, che venne inizialmente utilizzato per bonificare e ridurre gli odori nauseabondi delle fogne cittadine. Prendendo spunto dai lavori di Pasteur sulla fermentazione, Lister ritenne che anche la cancrena gassosa con cui era costretto a misurarsi dopo tanti interventi chirurgici fosse un fenomeno fermentativo. Nel 1865 trattò un caso disperato, un paziente con la frattura esposta di una gamba, utilizzando delle nebulizzazioni di acido fenico sul campo operatorio. Il paziente sopravvisse. Confortato da questa novità Lister continuò i suoi esperimenti, perfezionando le tecniche di pulizia e disinfezione delle ferite, della preparazione igienica del tavolo operatorio e dei ferri chirurgici. I risultati furono così incoraggianti, in termini di riduzione della mortalità post-operatoria, da poterlo mettere in grado di scrivere un articolo memorabile. (26, 27)
Questo lavoro, dal titolo di Antiseptic Principle of the Practice of Surgery, venne pubblicato sul numero di The Lancet del 16 marzo 1867 e venne accolto con molto interesse. Dopo le prime positive esperienze Lister si avviò sulla strada di una maggiore e sempre più diffusa applicazione del nuovo metodo unite ad un suo perfezionamento. Lo denominò antisepsi, sottolineando come l’acido fenico fosse in grado di ridurre le complicanze settiche degli interventi chirurgici. In seguito il chirurgo tedesco Ernst von Bergmann (1836-1907) propose l’utilizzo preventivo sui ferri chirurgici e sul materiale operatorio della metodica di Lister e tale intervento prese il nome di asepsi. Sarà quel chirurgo geniale che rispondeva al nome di William Halstead (1852-1922) ad introdurre infine l’utilizzo dei guanti di gomma come corredo indispensabile del medico. Halsted convinse la Goodyear, la grande industria americana del settore, a produrre un tipo di lattice particolare per tali guanti, studiandone personalmente la forma e la consistenza ottimale.
La sconfitta, o almeno la riduzione del potere patogeno dei germi sulle ferite rivoluzionò la chirurgia, rendendo possibili interventi chirurgici più efficaci e meditati ed invogliando schiere di giovani medici ad intraprendere questa professione. (27)
Si può affermare che gli anni tra la fine del XIX secolo ed il primo decennio del XX furono determinanti nel segnare l’avvento della medicina moderna così come oggi la intendiamo e come essa è stata strutturata. Furono anni eccezionali, in cui il progresso tecnologico che già era stato applicato ad altri campi della vita umana trovò modo di far germogliare delle innovazioni che suscitarono la meraviglia dei contemporanei e di cui ancora oggi viviamo i benefici diretti. Nel 1895 il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen (1845-1913) scoprì casualmente che i raggi emanati da un tubo catodico potevano attraversare lo scheletro ed impressionare una lastra fotografica. La prima radiografia delle ossa di una mano da lui eseguita fu accolta come un autentico miracolo per il quale si scomodò anche il Kaiser Guglielmo II in persona.
L’imperatore finanziò con larghezza di mezzi lo scienziato che recava ulteriore lustro all’immagine pubblica e sociale del Secondo Reich. Nel 1903 l'olandese Willem Einthoven (1860-1927) trovò il modo di registrare l’attività elettrica del cuore e di mettere in relazione questi dati alle variazioni fisiopatologiche di tale organo: nasceva l’elettrocardiografia. Negli anni intorno al 1920, il medico tedesco Hans Berger (1873-1941) inventò un sistema di rilevazione delle onde elettriche generate dai neuroni e dal cervello. Il tracciato su carta che ne derivava prenderà il nome di elettroencefalogramma. La scoperta di nuovi orizzonti nella pratica medica provocò la divisione del sapere medico in diverse branche specialistiche, che si istituzionalizzarono per tramandare e condividere tra di loro un insieme di nozioni il più affidabile possibile. (3, 23)
Se si tiene presente l’introduzione quasi in contemporanea in terapia dei primi farmaci capaci di inibire la crescita batterica, i composti arsenicali scoperti da Paul Erlich, ci si renderà conto pienamente di quanto la medicina tra i due secoli sembrò possedere per i contemporanei un potere inarrestabile di mutare il millenario destino dell’uomo e di renderlo più forte e meno sensibile al dolore ed alla morte. (24, 25)
Eppure tutto questo avveniva proprio in concomitanza con l’immane carneficina della Prima guerra Mondiale, la più inutile delle guerre, se mai ce ne furono di utili, che devastò l’Europa ed aprì una crisi profonda nella società e nella cultura occidentali. Le distruzioni della guerra su scala planetaria, l’instabilità politica e la disgregazione sociale che essa introdusse, portarono a riflessioni profonde sul concetto stesso della morte. Proprio nel momento in cui la schiavitù a questo destino sembrava parzialmente attenuarsi per i successi della medicina, l’uomo introduceva nel suo vivere quotidiano la possibilità dell’auto-annientamento grazie all’assoluta amoralità ed all’enorme potere distruttivo delle armi moderne che si confrontarono nel primo conflitto mondiale.
Fu in quegli anni intorno al 1914 che avvenne la riscoperta di un filosofo danese fino ad allora misconosciuto, che rivelò possedere nel suo pensiero una chiave per comprendere l’angoscia ed il disagio dell’uomo del Novecento. Søren Kierkegaard (1813-1855) analizzò il percorso esistenziale attraverso cui il singolo essere umano veniva dapprima “gettato nel mondo” attraverso la nascita e poi organizzava la propria vita e la propria condizione di unicità seguendo le esperienze irripetibili della propria esistenza. (5, 10)
Kierkegaard sgombrò ogni equivoco dal concetto di morte. Questo costituiva l’angoscia suprema, un avvenimento unico e non rappresentabile che riguardava il singolo e lui soltanto. L’ineluttabilità della morte e l’impossibilità di conoscere in anticipo il momento del suo giungere permetteva che il pensiero di essa fosse presente, in modo più o meno consapevole, in ogni azione umana.
La morte diventava così l’orizzonte esistenziale della condizione umana ed il presupposto perché l’uomo potesse aderire all’idea di una fede in Dio. (5) Una fede di cui aveva bisogno quell’umanità massacrata nelle trincee del Carso o nel fango delle Somme. Presa a cannonate nelle pianure della Polonia, in anni grigi di inutili massacri in nome di strumentali ideali nazionalistici. Nello stesso periodo in cui la medicina stupiva il mondo attraverso successi continui e l’opera di grandi ricercatori sembrava promettere un futuro non troppo lontano di affrancamento dal dolore, la fisica stava conducendo da tempo un processo di revisione critica dei risultati cui era giunta. La Fisica quantistica e la Teoria della Relatività avevano aperto delle crepe enormi nella modalità di affrontare i problemi posti dallo studio della natura attraverso gli strumenti della fisica classica di tipo meccanicistico e sperimentale, elaborata da Galileo Galilei ed Isaac Newton. (7, 23)
Il modo con cui la fisica riusciva ad interpretare il mondo e la sua complessità stava diventando una conoscenza di tipo probabilistico. Il filo conduttore che attraversava queste molteplici esperienze di tanti ricercatori era l’idea che le scienze fisiche e la matematica non fossero necessariamente sempre certe ed indubitabili. (15, 16)
La rivoluzione concettuale di questo momento storico comportava l’affermazione che queste discipline non fossero vere in senso assoluto, ma unicamente esatte, come suggerirà il filosofo Martin Heidegger (1889-1976) qualche anno dopo. (11)
Le scienze potevano essere utili, potevano rivendicare una condizione di verità ontologica, ma non potevano più affermare, come aveva predicato Newton, di essere la dimostrazione armonica di un ordinamento superiore divino e di un’armonia universali. La complessità dei fenomeni naturali, la loro variabilità temporale, l’impossibilità di invertire il flusso dell’entropia termodinamica che portava verso il massimo disordine molecolare, comportavano l’impossibilità di ricostruire perfettamente a ritroso lo svolgersi degli eventi indagati. Resero consapevole buona parte della comunità scientifica dell’assoluta relatività epistemologica dei risultati da essa raggiunti. (9, 16)
Questa revisione critica non si verificò in campo medico. Questo era un sapere antico e contemporaneamente troppo giovane ed entusiasta dei risultati che stava ottenendo per accontentarsi delle sole probabilità di certezza generate da un acceso dibattito epistemologico. Dopo secoli di approssimazione e di insuccessi clamorosi, valga per tutti gli esempi l’impossibilità di comprendere e controllare con razionalità un fenomeno come la peste, dopo le confusioni con la magia e l’alchimia, i medici riuscivano per la prima volta nella loro storia a fornire delle spiegazioni attendibili intorno alle cause di tante malattie. Attraverso questa conoscenza trovavano i rimedi idonei per curarle o almeno controllarle. (17, 18)
Oggetto dei loro straordinari successi erano le malattie infettive, flagelli che per secoli avevano seminato morte e devastazione nella civiltà umana, facendo più vittime delle guerre. (26, 27) Si trattava di una comprensione magari ancora un po’ approssimativa, forse bisognosa di essere raffinata e migliorata nei rimedi proposti, ma che funzionavano nella maggior parte degli individui su cui questi venivano provati e sperimentati, migliorando significativamente la durata e la qualità della vita di milioni di persone. Forse, per spiegare in parte questo processo di separazione tra la medicina, la filosofia e l’epistemologia, accorre rifarsi ad una definizione articolata che Immanuel Kant diede della medicina e dei suoi rapporti con la filosofia. Lo storico della scienza tedesco Dietrich von Engelhardt ha individuato nel pensiero kantiano il punto cruciale di un’interpretazione filosofica della medicina. (28)
La medicina per Kant era, come la filosofia, una cultura di tipo morale (moralischeKultur), vale a dire un tentativo di trattare in modo morale la fisicità dell’uomo e del suo rapporto con il dolore e la morte. All’inizio del Novecento la medicina parve dimenticare questo insegnamento. Accecata in senso epistemologico dai suoi stessi successi, dimenticò ogni altra modalità di interpretazione nel suo campo di studi che non fosse quella meccanicistica e sperimentale. Questo modo di studiare l’uomo e le sue malattie funzionava, magari sarebbe stato perfezionabile, ma sembrava ottenere risultati indiscutibili. La grande industria farmaceutica che stava nascendo non era troppo interessata ad un dibattito epistemologico, ma a prodotti che funzionassero e risolvessero i problemi di salute delle persone, almeno in un orizzonte temporale ben delimitato, realizzando profitti sempre più consistenti. La fama, la ricchezza, il prestigio e la gratificazione sociale che circondarono molti celebri medici della seconda parte dell’Ottocento e del primo Novecento, pensiamo a Robert Koch ed allo stesso Joseph Lister, una cui statua è collocata oggi in una piazza di Londra, costituirono il riconoscimento più evidente dell’importanza sociale che il ruolo del medico veniva ad assumere. (19)
A questo punto, sarà opportuno ricordarsi di chi comprese tale processo mentre si stava svolgendo e seppe raccontarlo con ironia. Una constatazione che possiamo trovare in una brillante commedia francese del 1923, scritta da Jules Romains (1885-1972): Knock ou le Triomphe de la médecine (Knock o il trionfo della medicina). Per chi non la conoscesse, ecco la vicenda narrata in questa piéce ricca d’ironia e di sarcasmo.
Il dott. Knock, sconosciuto ai più, ma fornito di una prestigiosa laurea in medicina, arriva un bel giorno nel villaggio di St. Maurice come successore del medico precedente, il dottor Parpalaid. Questi, stanco della routine del piccolo paese dove tutti godono di ottima salute, si è trasferito in una grande città come Lione per valorizzare la propria competenza professionale ed emergere socialmente. Dai modi affabili, ma sicuro di sé e mosso da un’inquietante e dichiarato proposito: “…non esistono persone sane, ma solo malati inconsapevoli di esserlo…”, Knock riesce ad instillare lentamente in tutti gli abitanti del villaggio il terrore della malattia e con essa un sentimento di destabilizzante precarietà esistenziale.
Il suo studio si affolla sempre di più, magari approfittando delle visite e dei consulti del lunedì, attività che il bravo medico elargisce gratuitamente a scopo promozionale. Così, mosso da una relativa convenienza ed da una passione fervida ed instancabile per il suo mestiere e la sua arte, Knock finisce per scoprire nei suoi assistiti le malattie più strane e più rare e fornire loro tutta una serie di diagnosi brillanti. Tutti lo rispettano, convinti della sua bravura come medico e del suo acume diagnostico. In breve le tranquille abitudini di vita del paese sono sovvertite da una serie di malattie presunte, più o meno reali. Oltre a Knock, anche il farmacista, l’accorto dott. Mousquet, appare assai soddisfatto della situazione e collabora con il medico per circoscrivere i malanni e fornire l’assistenza necessaria a tanti bisognosi. Così Knock racconta l’esito della sua missione ad uno sconcertato dott. Parpalaid:
[Knock] “… La prima volta che mi sono piantato qui davanti [alla finestra], il giorno dopo del mio arrivo, non ero molto fiero, sentivo che la mia presenza non aveva gran peso, che questo vasto territorio esisteva indipendentemente da me e dai miei simili. Ora invece sono a mio agio come un organista davanti al suo grande organo. In duecentocinquanta di queste case - non le possiamo vedere tutte a causa del fogliame – ci sono duecentocinquanta camere dove qualcuno s'inchina alla medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo steso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso di tipo medico. La notte è ancora più bello, perché ci sono le luci. Quasi tutte le luci sono mie. I non malati dormono nelle tenebre. Sono invisibili o non ci sono più. Ma i malati hanno dovuto tenere la loro lampada accesa. La notte elimina tutto quello che è rimasto ai margini della medicina, me ne nasconde il fastidio e la sfida. Il paesaggio del villaggio lascia il posto ad una specie di firmamento del quale io sono il creatore continuo. Non vi dico poi delle campane. Pensate che per tutti i miei pazienti il primo compito delle campane è quello di ricordare le mie prescrizioni, poiché esse ne sono la voce. Pensate che tra qualche minuto suoneranno le dieci, che per tutti i miei malati le dieci sono la seconda misurazione della temperatura rettale…”
da Jules Romains, Knock o il trionfo della medicina, atto III, 1932
Il povero dott. Parpalaid viene richiamato in paese dalla gravità della situazione, ma subirà il medesimo destino dei suoi vecchi assistiti. Si convincerà di essere lui stesso malato e dovrà, sul finire della commedia, attendere perplesso e preoccupato gli eventi che il futuro gli riserverà. Sarebbe bastato poco per impedire a Knock di prevalere, magari pretendere una maggiore severità nei criteri diagnostici adottati, delle prove evidenti ed indubitabili delle malattie annunciate, ma la cortina fumogena del suo linguaggio ed il fascino personale con cui dispensa un sapere che promette soluzioni mirabolanti incantano gli abitanti del paese. Uno dei messaggi meno rassicuranti trasmessi da quest’opera letteraria è costituito dal fatto che convenga sentirsi malati e pensare a trovare qualcuno che risolva i propri problemi esistenziali piuttosto che lottare con le difficoltà della vita. E’ dunque meglio credere a qualcosa che a niente ed una medicina esercitata senza scrupoli e misura, senza rispetto e fiducia nell’equilibrio delle funzioni del malato e nella sua capacità naturale di guarigione può sostituirsi alla religione ed alle ideologie, facendo leva sulla paura della morte e sul dolore dell’uomo. Questa è l’amara morale che possiamo trarre dalla commedia di Jules Romains.
Dobbiamo a questo punto considerare con attenzione le motivazioni e le cause che hanno deviato la medicina tra Ottocento e Novecento su di una traiettoria rigidamente “scientifica”, senza quasi ripensamenti autocritici sul proprio ruolo e sui propri limiti rispetto alle altre discipline legate allo studio della natura. Come abbiamo accennato in precedenza, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento la matematica e soprattutto la fisica vivono un momento di grande ripensamento epistemologico. (2, 14) Esemplare a questo proposito è quanto avvenne per la Termodinamica. All’inizio del XIX secolo il marchese di Laplace aveva affermato che era possibile, in linea teorica, comprendere la meccanica dell’universo se si fosse potuto disporre di tutti gli elementi che entravano in relazione di tra di loro nel moto planetario e stellare. Anche se Laplace non era credente, si trattava di una manifestazione di fiducia nelle idee di Galileo e Newton.
Soprattutto la visione del creato profondamente religiosa che Newton aveva sostenuto era alla base di una concezione dell’universo come un insieme retto da una logica trascendente, in esso connaturata, che l’uomo aveva il compito di svelare. Le leggi della natura erano dunque già perfettamente inscritte nel creato e facevano funzionare la macchina-mondo in attesa che qualcuno fosse così acuto da poterle scoprire. (3, 24) Secondo Newton, questa visione ideologica avrebbe portato indirettamente lo scienziato a rendersi conto che esisteva un’intelligenza superiore che aveva già ordinato e previsto tutto. Tuttavia, Laplace stesso si accorse di qualcosa che non quadrava nello studio dei fenomeni termici. Certamente egli non poteva pensare che il moto delle molecole mosse dal calore e quello dei pianeti fossero la medesima cosa, ma fiducioso nelle leggi della matematica e della fisica Laplace si trincerò dietro l’affermazione che fosse solo l’ignoranza umana ad impedire di comprendere l’unitarietà e la logica di un fenomeno termico. (24)
Una qualche legge universale che regolasse tali fenomeni doveva pur esserci, nonostante la loro apparente e disordinata complessità. Il tempo e gli studi l’avrebbero resa manifesta ed evidente. Anche se nei movimenti caotici, come quelli delle molecole riscaldate, sembrava regnasse il caso, Laplace si sentì di affermare che si trattava solo di effettuare un sufficiente aggiustamento statistico e matematico nelle misurazioni dei fenomeni e poi ogni variabile del sistema sarebbe stata compresa in un quadro generale più ampio.
Jean Baptiste Fourier (1768-1830) nel 1822, quasi negli stessi anni, divulgherà un suo libro che recava il titolo di Théorie analytique de la chaleur. In questo volume affermerà che lo scienziato non doveva cercare delle ipotesi generali quando esponeva le sue teorie, ma unicamente individuare le cause in stretta relazione con il fenomeno studiato. Doveva semplicemente cercare di capire le leggi alla base dei processi naturali, di cui avrebbe dovuto sforzarsi di conoscere chiaramente le singole cause. (3, 24) Quanto alla unificazione di queste leggi in un contesto più ampio di comprensione dei fenomeni naturali, tutto sarebbe stato demandato alla matematica, ottenendo però in questo modo un piano di integrazione più teorico che sostanziale. Le idee di Fourier furono accolte con grande attenzione e considerazione dalla nascente filosofia positivistica. Auguste Comte stesso paragonò l’opera di Fourier a quella di Newton. Si trattava invece di un’apertura di credito logico-matematica nella forma, ma sostanzialmente metafisica nella sostanza, ad una interpretazione della realtà basata sulla credenza di una razionalità e prevedibilità intrinseca della natura. (5)
Le successive ricerche nel campo della Termodinamica e dell’Elettromagnetismo diedero luogo a dei considerevoli ripensamenti. Negli anni intorno al 1840 James Prescott Joule (1818-1889) dimostrò l’inesistenza del così detto fluido calorico, un’entità fisica mai ben definita che avrebbe dovuto fare da tramite nella cessione del calore da un corpo caldo ad uno più freddo. Attraverso l’Effetto Joule formulato dal fisico inglese, il calore prodotto veniva invece direttamente correlato all’energia impiegata. Si riuscì a distinguere tra calore, come energia misurabile e temperatura, proprietà che regolava il trasferimento di calore da un sistema ad un altro. (24) Esito di questi studi e delle ricerche di Rudolf Clausius (1822-1888) e William Thomson (1824-1907), detto anche Lord Kelvin, furono la formulazione dei due principi classici della termodinamica, che di seguito ricordiamo:
· il primo principio si basava sulle esperienze di James Prescott Joule e sanciva l’equivalenza tra l’energia utilizzata ed il calore generato e di conseguenza la relazione lineare che si collocava tra calore e lavoro. Il primo principio stabiliva l’equivalenza tra le varie forme di energia, cioè il principio generale di conservazione dell'energia. Un corpo poteva perdere una parte della sua energia meccanica se acquistava energia sotto forma di energia termica. Un blocco che scivolasse su di un piano inclinato, attraverso l’attrito perdeva energia potenziale, non acquistando una corrispondente quantità di energia cinetica. Tuttavia si riscaldava, in quanto la sua energia interna aumentava in proporzione.
· il secondo principio, che era la conseguenza delle ricerche di Lord Kelvin e Clausius, affermava che la dispersione di energia, che avveniva tra due sistemi a temperatura differente, avrebbe dato luogo ad un aumento di Entropia. Questa poteva essere definita come una funzione che misurasse il grado di disordine molecolare di un sistema. La sua conseguenza pratica, dovuta alla dispersione del calore, consisteva nella mancanza di possibilità di costruire motori dal rendimento energetico pari al 100% dell’energia impiegata, perché una parte dell’energia stessa non sarebbe mai stata riutilizzabile dal sistema che l’aveva generata.
Il termine Entropia, che fu coniato da Clausius stesso, recava in sé un elemento rivoluzionario. Se le molecole di un sistema sottoposto a riscaldamento assumevano comportamenti che non erano prevedibili secondo le formule della fisica classica, ne conseguiva che la ricerca scientifica doveva in fin dei conti accontentarsi di valutare fenomeni di tipo probabilistico e non sempre assolutamente certi e riproducibili con esattezza. In più, se si ammetteva che le molecole fossero libere di disporsi e muoversi come meglio ritenessero, l’aspetto finalistico della scienza naturale e la presunzione newtoniana di scoprire un disegno superiore e logico in tutto il creato, divenivano una mera illusione, un’ipotesi consolatoria non sostenuta da dati di fatto. Il sistema universo dunque si muoveva e funzionava, ma sembrava purtroppo farlo a sua discrezione, infischiandosene delle aspettative di chi lo stava studiando. (9, 14)
Quest’ipotesi portò ad accese polemiche tra i sostenitori della fisica classica e quelli dell’originalità di questi nuovi elementi forniti dalla Termodinamica.
Il grande fisico austriaco Ludwing Boltzmann (1844-1906) dimostrò che qualsiasi fosse stata la distribuzione iniziale delle singole velocità delle molecole di un gas riscaldato, tali singole velocità, per effetti delle collisioni molecolari, tendevano a distribuirsi secondo una legge probabilistica universale. (20)
Per misurare questa caratteristica, Boltzmann ideò una famosa formula matematica, scolpita sulla sua tomba in un cimitero di Vienna, dopo la morte dello scienziato. Questi, che soffriva probabilmente di un disturbo bipolare, si era tolto la vita in un alberghetto istriano in un momento di depressione. La formula di Boltzmann è così descritta:
S = k log W
dove S è l’entropia, W è la probabilità dello stato di dispersione molecolare e k una costante, detta appunto costante di Boltzmann. (20) L’evoluzione della termodinamica portò ad una radicale differenziazione nel modo di intendere i fenomeni fisici, alla fisica macroscopica, osservabile direttamente con sicurezza, si contrapponeva ora una fisica delle particelle e della realtà microscopica, governata da connotazioni probabilistiche.
Questa concezione fu fortemente osteggiata da alcuni fisici europei di quel tempo, come Ernst Mach, che avevano una visione conoscitiva di tipo più strettamente empirista e basata sui fenomeni fisici che essi stessi potevano verificare. Boltzmann difese con forza le sue teorie, arrivando a scrivere:
“…Nessuna equazione può tradurre esattamente un evento, quale esso sia. Essa idealizza necessariamente e va al di là dell’esperienza. Il fatto che ciò sia inevitabile deriva dal processo stesso del nostro pensiero, che consiste nell’aggiungere qualcosa all’esperienza e nel formulare un’immagine mentale. La fenomenologia non dovrebbe dunque vantarsi di non superare l’esperienza ma al contrario incitarci a farlo quanto più possibile…” (20)
Il lavoro di Boltzmann fu criticato ferocemente dai suoi colleghi e la frustrazione ed il sentimento di solitudine che ne derivarono all’autore furono probabilmente tra le cause del suo suicidio. Il tempo e le successive scoperte della fisica moderna avrebbero però reso giustizia a questo genio incompreso dai suoi contemporanei. Ci si era ancora una volta dimenticati di un’antica lezione formulata da Immanuel Kant e che sarà bene rileggere:
“… Non è una cosa strana… dopo che una scienza ha subito una lunga elaborazione, quando si pensa di essere giunti chissà a quali meravigliosi risultati, che venga uno e ponga la questione se e come tale scienza sia in genere possibile. Perché la ragione umana è così pronta nelle sue costruzioni che già più volte ha eretto l’edificio e poi ha dovuto di nuovo demolirlo per vedere come erano costruite le fondamenta… Alcuni, nella superba coscienza del loro antico e perciò creduto legittimo possesso, con i loro compendi metafisici alla mano, guarderanno verso colui con disprezzo: altri, che non sono capaci di vedere se non ciò che è uguale a ciò che altre volte hanno veduto, non lo comprenderanno …”
da Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Milano, 1995 (13)
Nei primi anni del Novecento altre due importanti rivoluzioni scientifiche minarono definitivamente la teoria meccanicistica propria della fisica classica newtoniana: la Teoria della Relatività e quella della Fisica Quantistica. Senza entrare nei particolari, che esulano dagli scopi di questo saggio, bisogna sottolineare come queste due teorie affermassero concetti dalle conseguenze ineludibili. Con la Teoria della Relatività, Albert Einstein (1879-1955) dimostrò che la meccanica classica del moto dei corpi nello spazio si basava su due presupposti teorici errati, basati sul fatto che la misura del tempo fra gli eventi osservati fosse indipendente dal moto dell'osservatore e che la misura dello spazio fra due punti di un sistema di riferimento fosse indipendente anch’essa dal moto di chi visionava questo fenomeno.
Secondo quanto scoperto da Einstein, le leggi in base alle quali avvenivano i fenomeni della fisica erano stabili, ma lo spazio ed il tempo che interessavano i fenomeni osservati erano invece relativi al moto ed al sistema di riferimento in cui si trovava l’osservatore che li stava studiando. (7) Negli anni intorno al 1901 poi, un altro fisico tedesco di nome Max Planck (1858-1947), scoprì che lo scambio energetico tra la materia e la radiazione elettromagnetica che interagiva con essa avveniva in modo tale che l’energia in atto veniva assorbita od irradiata secondo quantità definite o dei multipli esatti di queste grandezze, che presero il nome di quanta. L'energia di un quantum dipendeva dalla frequenza della radiazione (v) e da una costante (h), denominata in seguito Costante di Planck (E=hv).
Nasceva così la meccanica quantistica, che diede luogo ad un complesso di teorie fisiche formulate nella prima metà del Novecento, che descrivevano il comportamento della materia a livello microscopico. Essa permetteva di interpretare fenomeni che non potevano comunemente essere spiegati ricorrendo alla meccanica classica. Caratteristica fondamentale della Meccanica Quantistica era il fatto che in essa lo stato e l'evoluzione di un sistema fisico venissero descritti in maniera intrinsecamente probabilistica. (14, 23) Spesso si ricorreva ad una visualizzazione del comportamento di una particella di materia in termini di funzione d'onda oppure di onda di probabilità. Mentre la Fisica si rendeva conto di dover intraprendere un diverso percorso conoscitivo e di dover abbandonare una strada lastricata da troppe certezze e dalla consolatoria consapevolezza di un disegno progettuale per tutto l’universo, la medicina di inizio secolo imboccò senza alcun ripensamento una deriva meccanicistica e sperimentale. Si trattava di una visione del mondo e della scienza che avrebbe comportato l’adesione incondizionata di generazioni di medici ad alcuni presupposti ideologici fondamentali ed abbastanza semplici, che devono ora essere ricordati:
- il metodo sperimentale e la sua affidabilità e riproducibilità sono alla base della conoscenza dei fenomeni biologici;
- le funzioni del corpo umano sono studiabili e riproducibili in laboratorio e negli animali da esperimento come modalità per un numero infinito di prove sperimentali relative alle funzioni fisiologiche ed al verificarsi delle alterazioni patologiche;
- la malattia è dovuta ad alterazioni della normale fisiologia del corpo umano;
- le terapie sono basate sul riconoscimento di un rapporto certo di causa/effetto nel verificarsi di un determinato fenomeno biologico;
- le terapie sono basate su di un intervento capace di annullare gli effetti di tali cause patogene o di prevenirle, modificando i parametri biologici dell’organismo.
Come si vede, si era costituita una visione speculativa e programmatica di tipo strettamente meccanicistico. Il corpo umano veniva considerato come una macchina estremamente complessa, ma pur sempre una macchina basata su delle regole di funzionamento prevedibili. Basterà conoscere sempre più approfonditamente una serie di fattori per poter prevedere con sufficiente sicurezza sia i termini del normale lavoro di un organismo biologico che le modalità del verificarsi di un suo guasto. De la Mettrie ed il Marchese di Laplace potevano ritenersi soddisfatti. (18, 26)
Il convincimento di poter comprendere un insieme complesso allo studio, una volta conosciuti tutti i fattori in gioco e tutti gli elementi da cui era costituito, tornava alla ribalta nell’esame dei fenomeni biologici. Tale convinzione veniva accettata proprio quando una sicurezza analoga cominciava ad essere abbandonata dalle altre discipline scientifiche.
Appare evidente come questa visione scientifica della medicina di fine Ottocento fosse da un punto di vista epistemologico del tutto anacronistica e contro corrente rispetto alle riflessioni delle altre scienze naturali. Ma la cosa che lascia ancora più perplessi è il fatto che tale convinzione riguardasse un oggetto di studio, l’uomo appunto, che racchiudeva e racchiude in sé molti più elementi di indeterminazione e di approssimazione delle orbite di un pianeta o di due corpi metallici che in laboratorio vengano sottoposti ad una misurazione controllata del loro calore ed alla registrazione delle modifiche successive di questo stato di riscaldamento o raffreddamento. (10, 23)
Quali furono i fattori che influenzarono questa scelta meccanicistico-sperimentale della medicina? Cercherò di illustrarne alcuni.
Per prima cosa, bisogna considerare la gratificazione umana e la considerazione sociale conferita dal successo delle nuove scoperte nel campo delle malattie infettive. Apprendere che la Peste, la Tubercolosi, il Colera ed altri simili flagelli non erano dovuti ad un fato casuale ed imperscrutabile, ma a degli agenti patogeni ben precisi ed individuabili, i microbi, permise di limitare per la prima volta nella storia umana l’effetto delle malattie infettive epidemiche. (27) Questo indubbio successo stabilizzò la durata della vita umana, rendendola nel Mondo Occidentale meno esposta ad una morte precoce ed inspiegabile. La riduzione del carico di angoscia esistenziale che ne derivò, in una società che si avviava all’omologazione di massa dei suoi valori e delle sue credenze, fu determinante. Poiché si teme di più ciò che non si conosce, tutta la società civile ne ricevette un impulso positivo a credere con maggiore ottimismo nel possibile raggiungimento di risultati straordinari in termini di salute. (9, 18)
Un secondo fattore importante fu costituito dagli sviluppi rapidi e quasi travolgenti delle nuove tecnologie. Le ferrovie, i piroscafi, il telegrafo, resero il mondo più piccolo e le comunicazioni interumane più rapide ed efficaci. Le informazioni mediche iniziarono ad essere condivise rapidamente tra le università e gli istituti di ricerca. Si trattava di una modalità di comunicazione che aveva bisogno di un linguaggio comune e condiviso, che esprimesse a sua volta i risultati di una metodologia scientifica accettata universalmente come autorevole: il metodo sperimentale. Non c’era ragione di dubitare di un sistema di conoscenza che era stata formulato e raffinato da un lungo processo ideologico-filosofico durato decenni e che aveva avuto l’avallo ed il sostegno di filosofi come Auguste Comte e di medici autorevoli come Claude Bernard. La scelta fu compiuta senza ripensamenti e la medicina divenne essenzialmente una medicina sperimentale. La sua lingua, il linguaggio condiviso con cui trasmettere i risultati ottenuti, fu una sola: la statistica. (14, 23)
Il terzo fattore di promozione fu di tipo essenzialmente politico ed economico. Già nel caso di Paul Erlich e del suo innovativo farmaco per la terapia della sifilide la potente industria chimica tedesca intervenne con tutto il suo enorme peso economico. I nuovi farmaci e vaccini promettevano importanti guadagni. L’abilità dei chimici tedeschi raggiunse una fama di quasi onnipotenza, la stessa che permise a Fritz Haber di sintetizzare l’ammoniaca direttamente dall’azoto e di progettare l’estrazione dell’oro dalle acque dell’Oceano Atlantico per pagare gli ingenti debiti di guerra di cui la Germania doveva farsi carico dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Le autorità incoraggiarono spesso tali aspettative e premiarono gli scienziati più geniali con riconoscimenti in denaro ed onori.
Come abbiamo visto, il Kaiser incoraggiò e finanziò Röentgen per la sua scoperta dei raggi X, mentre Robert Koch ricevette un premio di centomila marchi per la scoperta del vibrione colerico, oltre la direzione dell’Istituto d’Igiene di Berlino. Anche in Francia Pasteur divenne un eroe nazionale. L’entusiasmo popolare per la scoperta del vaccino anti-rabbico promosse una pubblica sottoscrizione che permise la costruzione dell’Istituto Pasteur, un grande complesso di edifici destinato alla ricerca scientifica in medicina e biologia, nella cui cripta sotterranea fu sepolto l’uomo che aveva sconfitto la Rabbia e l’Antrace. (27) Una divinizzazione in terra ed una santificazione laica per un esponente, naturalmente inconsapevole, di una nuova religione che prometteva una vita lunga e felice a tutti, se solo la scienza medica avesse avuto abbastanza mezzi ed uomini da dedicare alla ricerca.
Vittima di questo stato di cose fu il cambiamento del rapporto tra medico e paziente. Non sarà più la mano e l’occhio del medico ad indagare il segno ed il sintomo sulla superficie del corpo umano, ma questo inizierà ad essere conosciuto in modo mediato dagli strumenti tecnologici che verranno applicati a questo stesso corpo. Se l’uomo era una complessa macchina di carne e sangue, perché non scrutarlo attraverso altre macchine sempre più perfezionate ed affidabili? Le radiografie, l’elettrocardiogramma, gli esami del sangue, costituiranno dei cardini conoscitivi obiettivi a cui si dovrà prestare attenzione anche e contro ogni evidenza clinica, un’evidenza che potrà essere considerata fallace se non sempre completamente riconducibile alla statistica ed a quanto indicato da una macchina. Questa rivoluzione tecnologica comportava anche l’introduzione di diversi strumenti comunicativi. Il rapporto medico-paziente si trasformava anche attraverso la nascita di una diversa e migliore consapevolezza scientifica da parte del paziente stesso. Le persone della classe dominante, la borghesia europea, leggevano con attenzione giornali e libri ricchi di materiale illustrativo delle conquiste scientifiche moderne. Non erano più un destinatario di atti medici imperscrutabili, generati da figure autorevoli e circondate da una fama di venerazione quasi magica, come era avvenuto per i medici del passato. Stava nascendo una categoria di soggetti consumatori coscienti del prodotto salute, i quali, sulla spinta dell’imperante visione meccanicista e positivista, ritenevano che ogni fenomeno naturale fosse spiegabile e riducibile ad essere compreso dalla ragione umana. Anche le malattie avrebbero seguito questa strada e si sarebbero sottomesse al potere investigativo dell’uomo. Un uomo medico e scienziato che iniziava ad essere giudicato secondo la sua professionalità. Questa sua qualità si traduceva nel numero di morti evitabili e di successi terapeutici cui assisteva un pubblico consapevole, un pubblico ormai costituito da consumatori informati.
Utilizzare le macchine rendeva il rapporto con la diagnostica diverso e più mediato. Il medico diventava il soggetto interpretante di un qualcosa che non veniva più osservato dai suoi sensi, ma da uno strumento. I valori che questo forniva, una radiografia, un elettrocardiogramma, un semplice striscio di sangue sul vetrino di un microscopio, dovevano essere interpretati e compresi a loro volta, prima di essere trasmessi per sommi capi al paziente ed utilizzati per il suo bene. Si venne a costituire in questo modo un distacco crescente tra la figura umana del medico e quella autorevole dello scienziato e la persona del malato. Il medico elevava dinanzi a sé la barriera di un linguaggio tecnico poco decifrabile per i non addetti ai lavori, uno strumento comunicativo indispensabile per trasmettere con affidabilità e precisione le nozioni apprese, ma contemporaneamente uno scudo difensivo dietro al quale nascondere la propria impotenza davanti a determinate situazioni non gestibili attraverso la base conoscitiva del tempo.
Lentamente il paziente finì per perdere molte delle sue connotazioni umane, per divenire invece ciò che veniva ad essere rappresentato dagli esami e dal laboratorio: un insieme di dati, un collage vivente delle funzioni della macchina-uomo, su cui il medico interveniva, dopo aver riconosciuto il malfunzionamento e le sue cause, riportando i parametri alterati alla normalità. Alla base di questa nuova visione scientifica o piuttosto scientista del medico vi erano due convinzioni di fondo. La prima riguardava il concetto stesso di fatto scientifico. Se esaminiamo questo concetto con attenzione ci renderemo conto di come una cosa sia il fatto scientifico in sé ed un’altra la realtà scientifica che esso rappresenta. Per i medici del primo Novecento, che aderivano incondizionatamente all’ipotesi meccanicista dello studio dei fenomeni naturali, l’idea di fatto scientifico come qualcosa di evidente, perché riproducibile e misurabile, non poteva neppure lontanamente essere messa in discussione. (8)
Francois Magendie e Claude Bernard avevano sostenuto come i fatti non dovessero essere interpretati, perché questi si interpretavano da soli. (17) La natura era un libro aperto, un libro fotografico verrebbe da aggiungere, eloquente e manifesto nei suoi contenuti, simile forse alle immagini del grande fotografo Gaspard-Félix Nadar (1820-1910), uno dei padri della fotografia come strumento di comunicazione. I suoi ritratti delle personalità della cultura e dell’arte del tempo venivano considerati come una vera e propria consacrazione dell’importanza sociale e della fama della persona ritratta. Amico del grande scrittore di fantascienza e di romanzi avventurosi Jules Verne, Nadar era considerato un maître a penser. Si dilettava lui stesso di scienza ed esperimenti scientifici. Fece costruire ad esempio un grande aerostato, le cui prove in volo furono disastrose. Si convinse così che il futuro del volo umano sarebbe stato del “più pesante dell’aria” e donò somme considerevoli per patrocinare le ricerche in tal senso. La Parigi di Nadar era quella gaudente e spensierata in cui veniva costruita la Torre Eiffel, una città che credeva fortemente in un futuro migliore, almeno per chi poteva vantare la fortuna di essere un suo cittadino e di non avere preoccupazioni economiche.
Tuttavia, nel 1906 il fisico e storico della scienza francese Pierre Duhem (1861-1916), in un’epoca contemporanea alle vicende che stiamo illustrando, aveva formulato nei sui scritti l’idea che non esistessero prove sperimentali di una teoria scientifica completamente prive di ambiguità. (8) Secondo Duhem questo avveniva perché ogni ipotesi scientifica era costruita su di una serie di fenomeni e di teorie tra loro interconnessi ed a volte interdipendenti. Le teorie scientifiche davano pertanto luogo a strutture complesse di conoscenza della realtà, dove ci si poteva trovare di fronte ad un edificio speculativo razionale nel suo complesso, ma costruito con i mattoni di numerose teorie accessorie.
Non era quindi possibile confrontare e provare una singola teoria senza tener conto di tutte le altre su cui era stata sinergicamente costruita e che a loro volta la giustificavano. (6) Le tesi del fisico francese potevano costituire un’intuizione molto suggestiva anche a riguardo del sapere medico e dello studio della biologia in particolare. Potevano spiegare l’ambiguità dei risultati che gli esperimenti medici a volte generavano, potevano far comprendere come l’omeostasi di un sistema complesso, come quello costituito dal corpo umano, dovesse per forza giovarsi di teorie esplicative non solo meccanicistiche, ma anche dotate di un maggior tasso di tolleranza probabilistica.
Potevano far intuire infine come, nella complessa realtà costituita da un organismo vivente, fenomeni più semplici potessero avvenire secondo la regola della causa/effetto, ma il complesso generato dal loro insieme finisse per costituire un qualcosa di diverso dalla semplice somma algebrica delle singole parti. Un’altra convinzione che caratterizzò l’evoluzione metodologica della medicina del primo novecento fu costituita dall’accettare come indubitabile il fatto che solo le relazioni del tipo causa/effetto potessero essere considerate scientifiche. (14) Questo convincimento fu assunto come se si trattasse di un dogma, di un’ipotesi di lavoro che non potesse essere messa mai in discussione, pena il crollo di tutto il castello della medicina sperimentale. (23)
Eppure tale asserzione partiva dalla considerazione che lo scorrere del tempo fosse un processo di tipo completamente lineare, uno scorrere dal passato verso il futuro senza alcuna deviazione. Quindi, ciò che veniva osservato nel presente non poteva essere altro che la conseguenza di quello che era avvenuto nel passato, in fisica, in chimica, in biologia…
Veniva così ignorata la lezione epistemologica di David Hume sulla conoscenza della realtà come fenomeno di aspettativa psicologica del verificarsi dei fenomeni naturali, ma soprattutto non suscitò alcun dubbio od incertezza nel lavoro dei medici del primo Novecento la Teoria della Relatività che Albert Einstein formulò nel 1905 e la nascita della Fisica Quantistica. Come abbiamo in precedenza accennato, per queste teorie il tempo veniva a perdere un andamento strettamente lineare, dal passato al futuro, ma era influenzato dalla posizione nello spazio dell’osservatore, come pure dalla natura stessa delle particelle di energia e della materia, che si rifiutavano a volte di obbedire completamente a delle semplici leggi di causa/effetto. (14, 23)
Non dobbiamo infierire troppo sui medici di quel tempo. L’opinione pubblica europea loro contemporanea si sentiva al centro indiscusso del mondo e le scoperte della medicina di quei decenni avevano ottenuto successi troppo importanti per essere minimamente messe in discussione nella loro natura epistemologica più fine. (19, 24) Forse il motivo di fondo misconosciuto di tale comportamento fu che il campo dell’ignoto in Biologia e Medicina era relativamente più vasto, molto più vasto di quanto si fosse riusciti ad intuire nella chimica, nella fisica e nella matematica. All’inizio del Novecento grandi piroscafi solcavano ormai gli oceani con regolarità, le ferrovie collegavano le nazioni civilizzate, la luce elettrica già illuminava le città dell’Europa e degli Stati Uniti d’America. Le case degli uomini di quel tempo non erano molto differenti, quanto a confort e comodità, dalle nostre abitazioni odierne. Le nazioni europee ostentavano grandi eserciti e flotte onnipresenti in ogni angolo del globo, un mondo spartito colonialmente sia per lo sfruttamento delle risorse minerarie che con il pretesto un po’ ipocrita di portare la civiltà a popolazioni di “inferiore” condizione. Le grandi corazzate che solcavano i mari e potevano imporre la volontà delle grandi potenze in ogni parte del pianeta erano armate con cannoni enormi, capaci di sparare a venti o trenta chilometri di distanza proiettili di una potenza distruttiva mai vista.
L’Europa poteva guardare con orgoglio e ed un po’ di presunzione al resto del mondo, anche se bisogna considerare che, in fondo, la medicina era rimasta un po’ indietro rispetto a tutte le altre scienze e soprattutto alla tecnica. La durata della vita media era di circa 50 anni, ma si poteva ancora morire per cause che oggi riterremmo banali, come una polmonite od un ascesso dentario, perché non esistevano ancora gli antibiotici. Quanto alle malattie cardiovascolari, lo sfigmomanometro era stato inventato nel 1896 dal grande clinico italiano Scipione Riva Rocci (1863-1937) e sarebbero dovuti trascorrere molti anni per poter disporre di farmaci efficaci per la terapia dell’ipertensione arteriosa, una malattia di cui non si conosceva neppure l’esistenza prima dell’invenzione di quest’apparecchio. (22, 23) Molte delle ragioni che abbiamo elencato e descritto furono alla base della totale adesione della medicina moderna al metodo sperimentale. Un metodo che era nato per lo studio delle scienze fisiche e che parve allora l’unica strada da seguire. Oggi il corpo umano ci si presenta in una modalità assai più complessa, attraverso la sua fine interazione tra i vari organi ed apparati. L’articolata biochimica della vita, la conoscenza del codice genetico e la raffinatezza dei meccanismi di omeostasi sono meglio conosciuti.
Possiamo allora cominciare a porci qualche interrogativo epistemologico sulla metodologia generale della ricerca scientifica in medicina e ci si può concedere il lusso di cercare di vedere oltre la rassicurante sequenza causa/effetto. (14, 23)
I nostri colleghi medici di un secolo fa non erano in grado di poter immaginare uno sviluppo metodologico differente da quello che tante soddisfazioni e risultati concreti stava cominciando ad offrire. Una critica va semmai posta al fatto che la medicina si sia trascinata per tutto il Novecento nell’accettazione acritica di verità scientifiche affermate in modo dogmatico. Pensiamo solo ad un lavoro del 2005 comparso sul prestigioso Jama (Journal of the American Medical Association), la rivista dell’Associazione dei medici americani. Dopo una rivisitazione dei lavori prodotti utilizzando naturalmente la metodologia sperimentale e pubblicati nel periodo dal 1990 al 2003 da alcuni tra i maggiori giornali scientifici internazionali, studi citati almeno altre mille volte in diverse pubblicazioni per la loro autorevolezza, si evidenziava come un lavoro su tre di questi venisse smentito da ricerche successive… (4, 12)
Eppure agli inizi del Novecento il metodo sperimentale di derivazione meccanicistica sembrava funzionare perfettamente in medicina e dava luogo a risultati concreti ed apprezzabili, ad un aumento della vita media e ad un miglioramento delle condizioni generali di esistenza delle popolazioni. Così, per quanto riguardava la medicina e le scienze biologiche, la resa dei conti con le problematiche epistemologiche ancora aperte fu accantonata. Ci si incamminò fiduciosi lungo una strada che sembrava promettere solo un lungo percorso di successi, fedeli al credo del Marchese di Laplace che bisognasse solo accrescere il numero di nozioni possedute su di un determinato fenomeno naturale perché questo fosse perfettamente compreso.
L’avvento della termodinamica, differentemente dalla fisica newtoniana di tipo deterministico, segnalò i limiti posti dalla natura all’utilizzo delle sue forze. (20) Si iniziò nello studio della fisica a considerare la complessità di un sistema nel suo insieme. La fisica tentò di comprendere la significatività del movimento e del ruolo di ogni singola molecola in un sistema complesso e finì con il dichiararsi provvisoriamente sconfitta. La biologia e la medicina invece utilizzarono il metodo sperimentale attraverso una storicizzazione progressiva delle loro scoperte ed una specie di gerarchizzazione dei costituenti fondamentali di un organismo vivente. Si partì dal presupposto di esattezza di un modello universale, la macchina uomo, che doveva funzionare perfettamente perché immagine di un modello naturale più ampio e si procedette a “smontare” il sistema. Paradossalmente, il determinismo positivistico finì per appoggiarsi sulla convinzione che bastasse comprendere le singole parti e la fisiologia dei vari organi ed apparati per capire come funzionasse il tutto di un organismo vivente. Con la totale aderenza all'ideale conoscitivo illimitato di una scienza ideale, piuttosto che reale, si identificò la possibilità concessa alla medicina di prevedere l'evoluzione futura di ogni fenomeno biologico a partire dalla conoscenza certa delle leggi che lo regolassero. Ma le cose non stavano così.
Jules-Henri Poincaré (1854-1912) intuiva in quegli stessi anni la Teoria del Caos, che Edward Norton Lorenz (1917-2008) avrebbe poi portato alle sue estreme conseguenze. (21, 25) Semplificando al massimo tale teoria, questa affermava come in un sistema fisico complesso, dove interagivano tre o più componenti o corpi, risultasse impossibile fare previsioni sufficientemente esatte sull’esito finale di una tale interazione. Questo avveniva perché era sufficiente una piccola variazione iniziale nello stato del sistema per dare luogo alla possibilità di esiti finali ogni volta differenti, esiti che una serie di equazioni dimostravano in modo inequivocabile.
Nell’epoca di passaggio tra Ottocento e Novecento la medicina iniziò a costruire il suo futuro avendo a che fare con il più complesso dei sistemi conosciuti, l’uomo, senza tenere conto di alcuni di questi presupposti epistemologici che abbiamo descritto. La cosa non sarebbe rimasta senza conseguenze, seppure mascherata dai successi indubitabili che si stavano raggiungendo e che si sarebbero comunque ottenuti nella lotta alle malattie ed al dolore.
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(2009) Federico E. Perozziello