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La Medicina e il Nazismo
di Federico E. Perozziello
1. Una storia che è una fine
ed è anche un principio
“… Nulla forse distingue le masse moderne da quelle dei secoli precedenti come la mancanza di fede in un giudizio finale: i peggiori hanno perso la paura e i migliori la speranza. Incapaci di vivere senza timore e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembra promettere un’instaurazione del paradiso sognato e dell’inferno temuto. Come gli aspetti volgarizzati della società senza classi hanno una strana somiglianza con l’era messianica, così la realtà dei campi di concentramento corrisponde in modo sorprendente alle immagini medievali dell’inferno. L’unica cosa irrealizzabile è ciò che rendeva sopportabili le concezioni tradizionali del castigo: il giudizio universale, l’idea di un principio assoluto di giustizia associato all’infinita possibilità della grazia. Perché nella valutazione umana non c’è delitto o peccato che sia commisurabile con le pene eterne dell’inferno. Di qui il turbamento del buon senso, che si chiede: che cosa devono aver commesso queste persone per soffrire in modo così inumano? Di qui anche l’assoluta innocenza delle vittime: nessun uomo lo ha mai meritato. Di qui infine la grottesca casualità della scelta degli internati dei Lager nel perfetto stato di terrore: una simile “pena” può, con eguale giustizia e ingiustizia, essere inflitta a chiunque …”
da H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, 1967 (1)
ed è anche un principio
“… Nulla forse distingue le masse moderne da quelle dei secoli precedenti come la mancanza di fede in un giudizio finale: i peggiori hanno perso la paura e i migliori la speranza. Incapaci di vivere senza timore e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembra promettere un’instaurazione del paradiso sognato e dell’inferno temuto. Come gli aspetti volgarizzati della società senza classi hanno una strana somiglianza con l’era messianica, così la realtà dei campi di concentramento corrisponde in modo sorprendente alle immagini medievali dell’inferno. L’unica cosa irrealizzabile è ciò che rendeva sopportabili le concezioni tradizionali del castigo: il giudizio universale, l’idea di un principio assoluto di giustizia associato all’infinita possibilità della grazia. Perché nella valutazione umana non c’è delitto o peccato che sia commisurabile con le pene eterne dell’inferno. Di qui il turbamento del buon senso, che si chiede: che cosa devono aver commesso queste persone per soffrire in modo così inumano? Di qui anche l’assoluta innocenza delle vittime: nessun uomo lo ha mai meritato. Di qui infine la grottesca casualità della scelta degli internati dei Lager nel perfetto stato di terrore: una simile “pena” può, con eguale giustizia e ingiustizia, essere inflitta a chiunque …”
da H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, 1967 (1)
I bambini della scuola di Bullenhuser Damm
Esistono argomenti che attraggono e respingono contemporaneamente. Episodi storici che non si vorrebbe forse nemmeno conoscere o studiare, ma che contemporaneamente pongono domande così impegnative e coinvolgenti da non potersene astenere senza avvertire la sensazione di barare alle regole del gioco.
Se desideriamo raccontare l’evolversi e il differenziarsi del pensiero medico, non possiamo tacere su di un lato oscuro di questo. Forse il più tenebroso e impresentabile, ma che è esistito e di cui abbiamo prove certe e inoppugnabili. Un territorio poco esplorato, perché chiunque vi si inoltri ha sentore, prima ancora di intraprendere il proprio viaggio di conoscenza, che si tratterà di una ricerca culturale e umana che non rimarrà senza conseguenze e che, prima di ogni altra considerazione, a recarne segni indelebili sarà la sensibilità e la consapevolezza critica dello stesso viaggiatore. (2, 3)
Nella notte tra il 20 ed il 21 aprile del 1945, nei sotterranei della scuola di Bullenhuser Damm, alla periferia di Amburgo, in una città spettrale e devastata dai bombardamenti degli Alleati, venti bambini ebrei, dieci femmine e dieci maschi, vennero uccisi mediante impiccagione. Erano stati sottoposti per alcuni mesi a una delirante sperimentazione medica su di un possibile vaccino per la tubercolosi da parte di un gruppo di aguzzini coordinato da un medico appartenente al corpo delle SS, di nome Kurt Heissmeyer (1905-1967). I bambini erano arrivati in quella scuola dal campo di concentramento di Neuengamme, a circa trenta chilometri da Amburgo, un lager in cui erano stati trasferiti apposta per essere sottoposti all’inutile e crudele sperimentazione alla fine del mese di novembre del 1944.
Erano di varia nazionalità e tra loro c’era anche un piccolo cittadino italiano, la cui madre aveva avuto la sorte di essere ebrea. (4)
Questi fanciulli avevano un’età compresa tra gli otto e i tredici anni e provenivano dal campo di sterminio tristemente noto con il nome di Auschwitz-Birkenau, una sperduta località del Sud dell’odierna Polonia, dove tra il 1942 e il 1945 persero la vita oltre un milione di persone. Erano stati scelti per quell’esperimento da un altro medico nazista, il tristemente famoso Joseph Mengele (1911-1979), che aveva effettuato personalmente la selezione dei fanciulli facendo loro credere, con una crudeltà priva di ogni aggettivo, che essere stati scelti avrebbe anticipato il momento destinato a rivedere le loro mamme. (4)
A partire dal gennaio del 1945, nel campo di concentramento di Neuengamme, il dottor Heissmeyer iniettò il bacillo della tubercolosi nei corpi di quelle povere vittime con il pretesto di studiare un possibile vaccino antitubercolare. Gli esperimenti criminali si protrassero per oltre tre mesi, riuscendo solo a debilitare ulteriormente i bambini. Heissmeyer utilizzò delle iniezioni a dosi crescenti di tubercolina, successiva all’inoculazione del bacillo di Koch, per stimolare una presunta formazione di anticorpi specifici antitubercolari. Naturalmente non vi fu nessun effetto favorevole, come era da prevedersi in base ai lavori sperimentali sui modelli animali già effettuati negli anni Trenta del XX secolo e come confermato del resto e inutilmente dall’asportazione cruenta e ingiustificata delle linfoghiandole ascellari dei poveri bambini nel marzo del 1945.
Quelle linfoghiandole furono sottoposte ad un esame istologico da parte del patologo Hans Klein, che sarebbe diventato impunemente dopo la guerra docente di medicina legale presso l’Università di Heidelberg. Intanto la Seconda Guerra Mondiale stava volgendo al termine. L’Armata Rossa del maresciallo Zukov aveva stretto Berlino in una morsa senza scampo e le truppe degli Alleati si stavano avvicinando sempre di più da Occidente. Il 20 aprile del 1945 Adolf Hitler compì 56 anni. Nel bunker della Cancelleria, con il rombo dei cannoni sovietici che annunciavano una fine sempre più prossima, fu festeggiato il genetliaco del Führer. Nessuna festa allietò invece la baracca n. 4a del campo di Neuengamme quella notte. Con le truppe Alleate che potevano arrivare ai cancelli del lager da un momento all’altro era troppo pericoloso continuare a tenere prigionieri quei bambini, la cui presenza appariva ingiustificabile in un campo di prigionia e di lavori forzati. Il comandante del campo, Max Pauly, aveva chiesto al Comando Generale dei Campi di Sterminio di Berlino che cosa fare già il 7 di aprile. L’ordine arrivò il 20 dello stesso mese: i bambini andavano eliminati.
Pauly incaricò dell’esecuzione il medico SS del lager, il dottor Alfred Trzebinski (1902-1946). Fu approntato un autocarro su cui nella notte tra il 20 ed il 21 aprile presero posto i dieci bambini. Erano con loro due medici francesi prigionieri di guerra René Quenouille e Gabriel Florence, due infermieri olandesi Anton Holzel e Dirk Deutekom e sei prigionieri russi di cui ci è ignoto anche il nome. L’automezzo si diresse con una breve corsa alla periferia di Amburgo, dove sorgeva la scuola di Bullenhuser Damm, un edificio di mattoni rossi rimasto miracolosamente in piedi durante i bombardamenti e utilizzato come sede distaccata del lager di Neuengamme. L’esecuzione non poteva avvenire direttamente nel campo principale perché ci sarebbero stati troppi testimoni. Dei mezzi della Croce Rossa Svedese erano infatti già presenti sul posto per sorvegliare il rimpatrio di alcuni prigionieri da estradare in Danimarca.
All’arrivo alla scuola Trzebinski si confrontò con il comandante del piccolo campo di concentramento, l’Obersturmführer delle SS, un grado che corrispondeva più o meno a quello di tenente, Arnold Strippel (1911-1994). Strippel era un nazista fanatico, cui non importava alcunché nemmeno che la guerra fosse prossima alla fine e che tra i prigionieri da eliminare vi fossero bambini innocenti. Il gruppo dei reclusi venne condotto nei sotterranei e i medici francesi, gli infermieri olandesi e i sei prigionieri russi vennero impiccati in uno degli stanzoni, mentre i bambini sonnolenti e infreddoliti attendevano ignari in un altro locale, con le loro povere cose che avevano preso come bagaglio. Poi Strippel vinse le resistenze del medico Trzebinski, ricordandogli che dovevano obbedire a quell’ordine aberrante giunto da Berlino e che un membro delle SS, quale egli era, doveva seguire le direttive che gli venivano impartite per il bene dello stato e la sua assoluta fedeltà al Führer.
Al processo che dovette sostenere alla fine della guerra, prima di essere giustiziato, Trzebinski dichiarò di non aver portato con sé alcun veleno quella notte, in quanto aveva avuto qualche scrupolo a uccidere dei bambini. Nei campi di concentramento nazisti i prigionieri non avviati direttamente alle camere a gas venivano di solito eliminati con iniezioni di fenolo in vena o direttamente nel miocardio, attraverso un’iniezione intercostale. Il medico praticò invece ai bambini delle iniezioni intramuscolari di morfina che ne attutirono la sensibilità, forse ne uccisero subito i più debilitati per depressione respiratoria e li fecero comunque cadere in un torpore o in un sonno farmacologico. Poi, a uno a uno, i fanciulli vennero portati in uno scantinato e appesi a dei ganci di metallo che pendevano dai tubi dell’acqua che correvano lungo il soffitto. In questo modo furono strangolati e uccisi. Infine fu la volta di ulteriori diciotto prigionieri russi, arrivati successivamente con un altro automezzo e giustiziati anch’essi senza alcuna pietà. Dopo l’eccidio i corpi furono caricati di nuovo sui camion, riportati a Neuengamme e lì cremati per far perdere ogni traccia di quell’infamia.
Le loro ceneri vennero disperse nei campi circostanti.
Kurt Heissmeyer, il medico che aveva condotto la sperimentazione sulla Tubercolosi, non era più presente nel lager al momento dell’eccidio. Dopo la fine della guerra trascorse molti anni della sua vita in totale tranquillità. Esercitò a lungo e con successo la professione a Magdeburgo, nella Repubblica Democratica Tedesca, la Deutsche Demokratische Republik, dal nome abbreviato in DDR e nota come Germania dell’Est. Si trattava della parte della Germania soggetta al regime comunista filo sovietico istituito dopo la guerra e che avrebbe avuto termine solo con la riunificazione delle Due Germanie e la caduta del Muro di Berlino nel 1989, l’evento che rappresentò la fine del sistema di potere dell’U.R.S.S.
Heissmeyer venne arrestato nel 1963 e condannato all’ergastolo nel 1966 perché non si riuscì a provare il suo coinvolgimento diretto nell’omicidio dei piccoli. Morì di cardiopatia ischemica nell’estate del 1967, mentre era ancora detenuto. L’ufficiale delle SS Arnold Strippel, che aveva materialmente diretto l’eccidio, fu processato nel 1948 per la sua attività criminale in altri campi di sterminio. Gli furono inflitti ventuno ergastoli, più altri dieci anni di reclusione. I ventuno ergastoli si riferivano all’uccisione di altrettanti deportati ebrei nel campo di concentramento di Buchenwald, fatto di cui esistevano prove certe. Non venne fatta alcuna menzione alla strage di Bullenhuser Damm, anche se il suo nome come corresponsabile era emerso nel corso del processo, avvenuto nel 1946, intentato al medico delle SS Alfred Trzebinski, che venne condannato a morte ed impiccato dagli Alleati nell’ottobre del 1946. Soltanto nel 1965, in seguito al processo che vide Heissmeyer come indagato, le indagini su Strippel furono riaperte e furono incredibilmente richiuse nel 1967 per insufficienza di prove!
Il 21 aprile del 1969, praticamente nell’anniversario dell’eccidio, venne liberato dal carcere e nel 1970 Strippel chiese ed ottenne la revisione della condanna del 1948, la quale fu trasformata da ventuno ergastoli a sei anni di carcere, del resto già scontati!
A causa di questa sentenza gli venne riconosciuto un risarcimento di oltre 120.000 marchi dell’epoca. Strippel visse tranquillo e in libertà fino al 1979 quando, grazie alle inchieste del giornalista tedesco Gunther Schwarberg, il caso venne riaperto e numerosi testimoni e parenti delle vittime vennero sentiti in tribunale. Nel 1987 tuttavia il tribunale di Amburgo impose la cessazione del processo per l’impossibilità di Strippel a sostenere il dibattimento in quanto gravemente ammalato. L’assassino morì nel 1994 di morte naturale. (4)
Ho preferito iniziare la trattazione del terribile argomento costituito dalla medicina e dai suoi rapporti con il Nazismo da un caso significativo e ancora oggi non ben conosciuto nelle sue caratteristiche di inaudita crudeltà. Sono stato ad Amburgo e la scuola di Bullenhuser Damm è ancora li, perfettamente conservata, con un piccolo museo che ricorda quei crimini orrendi visitabile per poche ore la settimana.
Quando si parla dell’Olocausto e della Shoah si perdono spesso le coordinate razionali del pensiero, che rimane ferito nella propria sensibilità e umanità dalla malvagità di cui viene a conoscenza. Lo studioso deve invece cercare di comprendere il più possibile da un punto di vista storico e scientifico le cause e i moventi di un simile orrore, sforzandosi di non subire unicamente il coinvolgimento emotivo e lo sdegno per le azioni terribili di cui viene a conoscenza e conseguentemente perdere la propria lucidità di giudizio. Cercherò pertanto di aiutare il lettore a rendersi conto di come si sia potuto arrivare da parte di molti medici a commettere tali infamie e soprattutto come si sia storicamente e ideologicamente formato un ambiente sociale e politico che abbia permesso e favorito questi crimini. E' un mio dovere di storico, di medico e un modesto omaggio alla memoria di tante vittime innocenti e di quei poveri venti bambini in particolare.
2. La genesi dell’Orrore
Leonardo Conti (1900-1945),
medico e generale di corpo d'armata delle SS, era a capo della Sanità del Terzo Reich.
Tiergarten è un quartiere di Berlino che si trova ad Ovest del centro cittadino, un quartiere dove negli Anni Trenta del secolo scorso era situato il Gemeinnützige Stiftung für Heil und Anstaltspflege, che potrebbe essere definito come il Ministero della Salute dell’Epoca nazista.
Il Ministero si trovava al n. 4 di Tiergartenstrasse. Con il nome di programma T4, derivato dalla sede di questo ministero, che era in realtà un sottosegretariato alle dipendenze del Ministero degli Interni, fu indicato un programma di eutanasia attiva che ebbe inizio in gran segreto alla fine del 1938. (3)
Tutto era partito da una lettera di un cittadino tedesco, un padre della città di Lipsia, indirizzata ad Adolf Hitler in persona, in cui gli si chiedeva di porre fine alla vita del proprio figlio adolescente, affetto da gravi malformazioni fisiche e da un grave deficit psichico. Hitler fu colpito da questa supplica e immaginò un programma esteso di purificazione della società tedesca attraverso l’eliminazione dei soggetti considerati inabili a vivere una vita socialmente utile. Con una lettera su carta intestata recante il semplice nome del dittatore e il simbolo dell’aquila nazista, indirizzata a Philipp Bouhler (1899-1945), un alto funzionario di partito e generale delle SS, capo della cancelleria privata del Führer e al dottor Karl Brandt (1904-1948), suo medico personale, Hitler nel settembre del 1939 ordinò di istituire un procedimento di eliminazione degli adulti e dei giovani esseri umani portatori di disabilità mentali e fisiche. La lettera che egli scrisse e che si è salvata incredibilmente dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale si commenta da sola:
“… Al capo [della Cancelleria] del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili, secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute, possa essere concessa una morte pietosa …”
Iniziò così un processo di selezione ed eliminazione di inabili e malati che avrebbe portato alla soppressione criminale di decine di migliaia di esseri umani. Secondo le stime degli storici, che non sono tuttavia univoche, si sarebbe trattato dell’uccisione di un numero di persone variabile tra i 75.000 e forse gli oltre 150.000, tra cui alcune migliaia di bambini. Nella Germania del tempo queste idee non nascevano dal nulla, ma affondavano le loro radici nello uno sviluppo estremo di un possibile Darwinismo sociale. (5, 6)
Con il trascorrere degli anni, dopo l’uscita nel 1859 dell’Origine delle specie, le teorie evolutive di Charles Darwin avevano trovato degli accesi sostenitori ed estensori convinti della loro validità anche al corpo sociale. Di questi sviluppi Darwin era assolutamente innocente. La sua figura austera e la sua grande onestà intellettuale e morale non avrebbero mai approvato la pericolosa deriva ideologica condotta sulla così detta Evoluzione sociale. Secondo alcuni pensatori attivi nella seconda metà del XIX secolo e nei primi decenni del XX, come la natura si era preoccupata nei millenni di selezionare gli individui più adatti ad affrontare l’ambiente, così la società doveva e poteva farsi carico di migliorare la propria composizione umana, favorendo la vita e la riproduzione di individui dotati di caratteristiche fisiche e morali di eccellenza. Studiosi celebri e dalla personalità complessa, come l’inglese Herbert Spencer (1820-1903) e il francese David Émile Durkheim (1858-1917), avevano applicato i principi del Positivismo di Auguste Comte alla ricerca filosofica e scientifica in campo sociale. Avevano ipotizzato una modalità di costituzione delle strutture sociali e dei diversi ruoli esercitati dai protagonisti di questo processo attraverso meccanismi di selezione e di scelta dei soggetti più idonei. Durkheim vedeva lo studio della Sociologia come un vero e proprio strumento di “conoscenza medica” delle caratteristiche di una società, da cui si sarebbe potuto apprendere la natura delle eventuali “malattie sociali” e individuarne le cure. Aveva scritto Durkheim:
“… i fenomeni sociali sono cose e devono venire trattati come cose. Per dimostrare questa proposizione non è necessario filosofare sulla loro natura, né discutere le analogie che presentano con i fenomeni dei domini inferiori; basta constatare che sono l’unico datum offerto al sociologo. È una cosa tutto ciò che è dato, tutto ciò che si offre o che si impone all’osservazione. Considerare i fenomeni come cose significa considerarli in qualità di dati che costituiscono il punto di partenza della scienza: i fenomeni sociali presentano incontestabilmente questo carattere. […]
È possibile che la vita sociale sia soltanto lo sviluppo di certe nozioni; tuttavia, anche supponendo che ciò sia vero, tali nozioni non sono ottenute immediatamente. Non possiamo quindi attingerle direttamente, ma soltanto mediante la realtà fenomenica che le esprime. Non sappiamo a priori quali idee si trovino all’origine delle diverse correnti tra cui si divide la vita sociale e neppure se ve ne siano; soltanto dopo essere risaliti fino alle loro fonti sapremo da dove provengono. È necessario quindi considerare i fenomeni sociali in sé stessi, distaccati dai soggetti coscienti che li rappresentano; è necessario studiarli dal di fuori, come cose esterne, dato che si presentano a noi in questa veste …”
da Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 1895 (7)
La differenza più importante tra questi due pensatori era legata al fatto che Durkheim vedeva l’educazione e il condizionamento forniti dalla società come l’elemento fondante della personalità dell’individuo, mentre Spencer trovava centrale la scelta individuale del singolo essere umano, che doveva essere messo in condizione di vivere in una società retta dal libero mercato e da una competizione accesa e tuttavia leale e onestamente regolata. Il dibattito sulla conseguenza delle teorie evoluzionistiche e i loro effetti sulla vita umana fu molto acceso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti negli ultimi decenni del secolo XIX e nei primi del XX. In Germania questa visione culturale, che poteva portare a conclusioni di tipo eugenetico, ebbe il sostegno di prese di posizione molto nette da parte di due personalità forti e dotate di grande prestigio nel mondo accademico, lo psichiatra Alfred Hoche (1865-1943) e il giurista Karl Binding (1841-1920). I due studiosi pubblicarono insieme nel 1920 un libro che fece scalpore, dal titolo di: Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita). (3)
Si trattava di un punto di arrivo articolato e apparentemente razionale di un discorso ideologico i cui presupposti consistevano in alcune affermazioni molto discutibili. Secondo i due autori del libro era lecito praticare l’eutanasia su individui mentalmente handicappati, in quanto costoro si presumeva non avessero potuto formarsi una visione complessiva del mondo in cui vivevano e in cui erano stati in un certo senso gettati in modo non richiesto, per usare dei termini cari alla filosofia esistenzialista e che saranno coniati qualche anno dopo. I malati gravi che avessero deciso di non vivere ulteriormente la loro condizione di sofferenza «dovevano essere aiutati a morire», in quanto la loro morte non poteva essere interpretata come un vero e proprio assassinio, ma come l’evitare una fine penosa e dolorosa. Terzo e ancora più controverso punto, lo stato aveva il diritto di disfarsi di esseri umani incapaci di comprendere i termini della propria esistenza e di mostrare gratitudine nei confronti di chi li aveva in cura. Secondo Hoche, questi poveretti costituivano una zavorra per la nazione ed un peso economico ingiustificato ed inutile. Bisogna sottolineare come queste teorie allora in auge in Germania, perlomeno assai discutibili, avessero trovato un loro sostegno e giustificazione anche a partire da idee che circolavano nel mondo anglosassone in quegli stessi anni. (8, 9)
Erano state in parte ispirate, in senso più generico, dalle idee di Francis Galton (1822-1911). Galton era uno studioso geniale, per molti versi autodidatta. Cugino di Charles Darwin, aveva pubblicato nel 1869, dieci anni dopo l’uscita dell’Origine delle Specie, uno dei suoi molteplici e innovativi studi dal titolo di Hereditary Genius. In questo e altri scritti lo studioso inglese si presentò come l’inventore e il sostenitore autorevole del termine stesso di Eugenetica, cioè della disciplina che avrebbe dovuto interessarsi delle possibilità di “miglioramento” della specie umana attraverso l’utilizzo di fattori esterni all’evoluzione naturale e introdotti dall’uomo stesso. (10)
Si trattava dello sviluppo in chiave evoluzionistica di alcuni concetti presenti nell’opera di Lambert-Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874), un matematico e astronomo belga, che aveva scritto qualche decennio prima opere importanti per la conoscenza statistica dei fenomeni naturali e che si era proposto di riuscire a definire lo sviluppo del comportamento umano utilizzando le leggi della matematica. Quételet si era servito della modalità statistica nota come analisi multivariata, che a suo parere si sarebbe potuta adattare perfettamente allo studio di fenomeni scientifici complessi come il comportamento. Non quello di ogni persona, ma di un ipotetico Uomo medio statistico, cui fare riferimento in ogni calcolo. (3, 5)
Secondo le idee di Galton, la natura da sola non avrebbe avuto degli intenti evolutivi di tipo esclusivamente positivo e sarebbe stato pertanto compito dell’uomo intervenire, attraverso l’intelligenza e la ragione, per modificare il corso naturale degli eventi e perfezionare le caratteristiche della specie. Un perfezionamento che fu interpretato da alcuni come la licenza data all’uomo di interferire attivamente sulla nascita e sulla morte, selezionando e scegliendo i più adatti e scartando gli inetti all’esistenza. Le tesi di Galton, improntate ad un forte darwinismo sociale, furono riprese e condotte verso degli sviluppi pericolosi, che furono espressi nel 1895 dallo scrittore tedesco Adolf Jost nel suo libro Das Recth auf den eigenen Tod (Il diritto alla propria morte). Si trattò di un testo che fece scuola all’interno delle prospettive eugenetiche del Nazismo. (3, 9)
In questo libro Jost sosteneva la tesi che allo Stato spettasse l’ultima parola su come organizzare la nascita e soprattutto la morte degli individui, al fine di preservare il benessere e permettere il progresso dell’intera nazione. Bisogna segnalare come tesi del genere germogliavano in biologia e in medicina proprio negli stessi anni in cui avveniva la separazione epistemologica tra la medicina e le altre scienze della natura. Separazione che vide appunto negli ultimi tre decenni del secolo XIX e nei primi del XX il suo giro di boa e l’imboccare una strada che appare ancora oggi senza ritorno o ripensamenti. La medicina abbracciò, senza critiche epistemologiche, il metodo sperimentale e statistico, abbandonando ogni riflessione metodologica che permettesse ai ricercatori di tener conto della relatività delle loro scoperte e dell’impossibilità di raggiungere nello studio del corpo umano e di tutte le altre scienze a esso collegate delle verità scientifiche assolute. Si separò pertanto dalla più modesta e consapevole visione ideologica e programmatica delle altre discipline scientifiche, come Fisica, Matematica, Chimica, che si andavano invece in quegli stessi anni interrogando nelle loro ricerche sull’impossibilità di ottenere dei risultati scientifici assolutamente esatti e indiscutibilmente veri. (11, 12)
La costruzione di una grande nazione pan-germanica, voluta dal cancelliere prussiano Otto von Bismark nella seconda parte dell’Ottocento, si era basata da un punto di vista ideologico sull’affermazione della superiorità dello Stato tedesco e dei suoi abitanti su ogni altra popolazione europea. Pilastro portante di tale proclamata verità era stata l’esaltazione della capacità del cittadino del Secondo Reich imperiale di volere e sapere subordinare le proprie esigenze di individuo a quelle della patria, che gli assicurava un benessere sociale avanzato rispetto ad altri stati europei dell’epoca. Privilegi pagati tuttavia con la rinuncia all’affermazione di ogni dissenso politico radicale e con l’acquiescenza alle decisioni del potere costituito, uno stato autoritario e in quanto tale legittimato nella sua autorevolezza. (6)
Il manifesto ideologico del nazismo fu il Mein Kampf (La mia battaglia), il libro scritto dallo stesso Adolf Hitler tra il 1923 e il 1924, durante la prigionia seguita al fallito colpo di stato di Monaco di Baviera. Le idee portanti di quel testo erano l’ideale della sottomissione incondizionata al capo e l’ineguaglianza naturale tra gli uomini, principio in base al quale le masse si dovevano sottomettere in modo incondizionato ai loro leader e le razze “inferiori” a quelle “superiori”. Tali idee aberranti trovarono sostegno e divulgazione grazie all’opera di due personalità dotate di buona cultura e di ottima capacità di utilizzo mediatico del loro sapere, aderenti entusiasti e consapevoli al Nazionalsocialismo. Si trattò dell’ideologo del partito nazista, Alfred Rosemberg (1893-1946) e del ministro della propaganda, il tristemente noto Joseph Goebbels (1897-1945), il principale responsabile della formidabile macchina di consenso costruita dal regime. Goebbels, che si era laureato in filosofia nella prestigiosa università di Heidelberg, utilizzò in modo geniale i moderni mezzi di comunicazione, come la radio e il cinema, per esaltare le idee di Hitler e del Nazionalsocialismo, deformando sistematicamente la realtà e adattandola alla visione ideologica e di potere del regime. Costruì sapientemente il culto della personalità del Führer, dell’obbedienza e della fiducia cieca nelle decisioni del dittatore.
Diverso è il discorso da farsi per Rosemberg. Considerato il custode e il divulgatore del nucleo essenziale e più importante del pensiero di Hitler, Rosemberg fu autore tra l’altro di un libro utilizzato come materia d’insegnamento nelle scuole tedesche e che gli diede notorietà internazionale. Questo testo aberrante recava il titolo di Il Mito del XX Secolo (Der Mythus des 20 Jahrhunderts). Nel suo libro Rosemberg riprendeva le idee del conte Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), un diplomatico e scrittore francese, celebre per la sua opera Essai sur l'inégalité des races humaines (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane). De Gobineau, autore fondante per il razzismo europeo, sosteneva la divisione dell’Umanità in presunte razze, concetto che non dovrebbe trovare più alcuna credibilità da un punto di vista scientifico e biologico.
Grazie alla Biologia molecolare sappiamo infatti che il patrimonio genetico degli esseri umani è costante e identico nei suoi tratti fondamentali a dispetto delle diverse tipologie morfologiche esteriori. All’epoca in cui queste teorie furono formulate, l’apparente razionalità di una supremazia dell’uomo bianco e tra quest’ultimo, dell’esistenza di una razza superiore nordica e ariana, rivestivano una loro autorevolezza legata al pregiudizio e all’interesse di sopraffazione politica ed economica delle grandi potenze, impegnate nell’opera di asservimento coloniale del Mondo. Secondo le idee di Rosemberg gli Ariani erano stati i fondatori e gli animatori di tutte le grandi civiltà del passato in un percorso storico interpretato in modo delirante, che comprendeva l’antico Impero Persiano, Sparta e i Dori, i Romani e così via. Stampato in milioni di copie, il libro di Rosemberg conteneva anche un’interpretazione particolare del Cristianesimo, in cui la figura di Gesù Cristo veniva presentata come quella di un superuomo liberatore dell’umanità dall’elemento ebraico.
Anche se appare difficile credervi, una parte importante delle idee da cui traeva ispirazione Rosemberg provenivano dagli Stati Uniti. Quel grande paese era visto da alcuni nazisti come una nazione simbolo, sia per la sua storia di espansione ad Ovest, con lo sterminio e il confinamento degli Indiani, razza inferiore, nelle riserve, che per la politica di discriminazione razziale praticata negli Stati del Sud.
A questa visione socio-politica facevano da sostegno le idee dello scrittore e storico americano Lothrop Stoddard (1883-1950), in voga all’epoca. Stoddard si era scagliato con forza nei suoi scritti contro il pericolo bolscevico e il Comunismo, responsabile per lui dell’omologazione delle diverse civiltà verso il basso e nemico delle qualità individuali. (13, 14)
Secondo Stoddard, la Rivoluzione russa dell’Ottobre del 1917 era stata una vera e propria battaglia tra le Civiltà dell’Occidente e le masse brutali dell’Est Europa. Se la razza bianca voleva veramente prevalere nel confronto con questi sub-umani, doveva prendere le distanze dalle idee liberali e troppo arrendevoli delle grandi democrazie europee e americane per adottare drastici cambiamenti di politica economica e sociale, introducendo ad esempio un programma di eugenetica per migliorare il proprio milieu biologico. Rosemberg, riprendendo in parte le idee di Stoddard, affermò che le popolazioni slave, da lui considerate di etnia più infima rispetto a quelle dell’Europa del Nord, avendo scelto il Comunismo avevano dato vita ad una razza di Untermensch (Uomini di rango inferiore). Una razza che costituiva un pericolo per l’Occidente e la sua stessa civiltà e cultura. (5, 14)
Nei primi decenni del XX secolo gli Stati Uniti furono la nazione all’avanguardia dell’Eugenetica mondiale. La prima legge in questo senso venne varata nel 1907 nello stato dell'Indiana e riguardava la sterilizzazione forzata. (3)
Era una normativa rivolta ai ricoverati in ospedali psichiatrici e a carico all’assistenza statale. Delle apposite commissioni di esperti, formate da medici e giuristi, avrebbero dovuto valutare il grado della loro deficienza mentale sulla scorta di appositi test psicologici. Coloro che venivano ritenuti troppo gravi e non autosufficienti venivano sottoposti a sterilizzazione coatta. Negli anni seguenti tale pratica si estese anche ad altri stati americani, oltre venti, tanto che le sterilizzazioni forzate furono alcune decine di migliaia. Anche in Svezia la prassi della sterilizzazione per i malati e gli inabili mentali conobbe in quegli anni un certo successo. Si trattava di un’applicazione pratica delle politiche di igiene razziale che erano germogliate dal Darwinismo estremista, ma che affondavano le loro radici salde e difficilmente estirpabili nel convincimento positivista che ogni aspetto della vita dell’uomo fosse migliorabile intervenendo in modo razionale sulla natura biologica.
L’oggettività sperimentale assoluta rivendicata e ricercata dalle Scienze, che la Medicina e la Biologia di fine secolo accettarono con pochi ripensamenti epistemologici e morali, furono il terreno fecondo su cui germogliò la pianta della discriminazione razziale. L’opinione pubblica rimase affascinata da questo messaggio ideologico, ma apparentemente e saldamente scientifico, un messaggio che asseriva come si potesse intervenire sulle persone migliorandole, allo stesso modo di un allevatore che selezioni vacche da latte o cavalli da corsa. La politica, la filosofia e la religione non contrastarono e disapprovarono abbastanza queste idee, che sembravano indubitabili, grazie al prestigio che la medicina moderna si stava guadagnando, affrancando l’umanità da flagelli secolari come la sifilide e dalle malattie infettive in genere. Quando la Germania nazista iniziò a praticare l’eugenetica, l’esempio costituito dagli Stati Uniti attraverso la sterilizzazione forzata risultò un punto di inizio per un processo che sarebbe giunto progressivamente ad estendere la gravità dei suoi interventi, passando dalla sterilizzazione dei malati di mente non autosufficienti all’eutanasia degli stessi e di tutti i soggetti che fossero, indipendentemente dall’età, in una condizione di minorità e di non adeguatezza ai criteri di una normalità presunta. Criteri che erano stabiliti da un insieme di medici appositamente selezionati e formati dallo stato.
La Germania nazista iniziò ad applicare un programma di sterilizzazione forzata a partire dal 1933. Subito dopo la sua conquista del potere, in sintonia con la visione ideologica che abbiamo descritto, il regime nazista diede vita alle prime politiche di igiene razziale. Il 14 luglio 1933 fu discussa dal parlamento tedesco, egemonizzato e condizionato dal Partito nazionalsocialista, la Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses (Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie). La legge fu promulgata il 25 luglio, appena dopo la firma del Concordato con la Chiesa Cattolica avvenuta il 20 dello stesso mese. (15, 16)
La legge del 1933 stabiliva che le persone affette da una serie di malattie ereditarie o di cui si supponeva un’origine genetica, come la schizofrenia, l’epilessia, le varie forme di cecità e sordità, la Corea di Huntington e le deficienze mentali in genere, fossero sottoposte a sterilizzazione forzata. (3)
A questo insieme di sfortunati esseri umani, incolpevoli del loro stato, la legge nazista aggiungeva gli alcolisti cronici, in una sorta di condanna morale. Il Ministero degli Interni tedesco, da cui dipendeva anche quello della Sanità, calcolò in circa 400.000 il numero delle persone da sterilizzare. Questo ministero era retto da Wilhelm Frick (1877-1946), un avvocato bavarese e nazista della prima ora, che sarebbe stato uno dei principali autori delle leggi antiebraiche prima di essere condannato a morte e giustiziato dopo il Processo di Norimberga.
Furono istituiti dei Tribunali speciali, chiamati Erbgesundheitsgerichten (Tribunali per la Sanità ereditaria), formati da tre membri: due medici e un giudice distrettuale. Questi organi medico-giuridici avevano il compito di esaminare i pazienti nelle case di cura, negli istituti psichiatrici, nelle scuole per disabili e nelle prigioni, per stabilire coloro che dovevano essere sterilizzati e procedere successivamente all'intervento. Tutti i responsabili degli istituti dove potevano trovarsi i candidati alla sterilizzazione, i medici, i direttori, gli insegnanti e via dicendo, avevano l'obbligo legale di riferire ai funzionari dei Tribunali i nomi di coloro che a loro avviso rientravano nelle categorie su cui intervenire, violando così ogni codice deontologico e umano. Nonostante le proteste di qualche familiare e i ricorsi avanzati dai parenti dei pazienti, si ritiene che tra il 1933 e il 1939 siano state sterilizzate circa 350.000 persone.
La legge venne utilizzata come uno strumento punitivo, un mezzo utile in molti casi per mettere fuori gioco dissidenti e persone scomode politicamente. Vennero di conseguenza sterilizzate molte prostitute e anche chi non era affetto da malattie ereditarie. Martin Bormann (1900-1945), segretario personale di Hitler e vera eminenza grigia del regime, fece emanare una direttiva nella quale era specificato che in una diagnosi di debolezza mentale era necessario tener conto del comportamento politico e morale della persona esaminata, una chiara allusione alla possibilità di colpire i nemici del Partito attraverso il provvedimento e di soprassedere invece nel caso opposto. Esistono alcuni indizi che il programma di sterilizzazione di massa dovesse essere esteso anche alle persone affette da disabilità fisiche in genere, anche se tale idea venne espressa con cautela, in quanto il potente ministro della propaganda Joseph Goebbels soffriva degli esiti di una malattia alla gamba sinistra e zoppicava nel suo incedere. Lo stesso Philipp Bouhler (1899-1945), generale delle SS e uno dei responsabili organizzativi di questo progetto criminale, era claudicante a causa di una ferita alla gamba riportata nel corso della Prima Guerra Mondiale e sarebbe stato pertanto imbarazzante tener conto delle condizioni fisiche di questi due importanti gerarchi. (3, 11)
Negli anni seguenti il 1937 le politiche di riarmo intraprese dalla Germania e la necessità di manodopera fecero in modo che molti potenziali pazienti risultassero esclusi dall'applicazione di questa legge per la necessità del loro impiego come forza lavoro nell’industria pesante. Il numero di sterilizzazioni forzate diminuì. La maggior parte dei medici tedeschi non protestò contro l'applicazione di una legislazione che molti di loro ritenevano addirittura giusta in base alle idee scientifiche e antropologiche del tempo. La Chiesa Cattolica, pur deplorando il provvedimento, si tenne in disparte senza esercitare alcun tentativo di disobbedienza civile o di richiamo ai principi della libertà di coscienza, limitandosi a chiedere che i medici cattolici fossero dispensati dall'applicazione della legge e dal far parte delle commissioni selezionatrici dei candidati alla sterilizzazione. La pratica della sterilizzazione forzata fu dunque l’inizio di un percorso criminale che avrebbe portato in pochi anni all’eutanasia nei confronti dei malati di mente, alle esecuzioni di massa dei prigionieri di guerra e dei civili durante la campagne di Polonia e di Russia e all’abominio dei campi di sterminio. (3, 16)
Come abbiamo illustrato, l’ideologia nazista appoggiava buona parte delle proprie teorie deliranti su di una base pseudo-scientifica, su di una forma di darwinismo sociale più estremo di quello anglosassone. L’uomo tedesco e nazista poteva e doveva intervenire in modo diretto sulla natura, assumendo il controllo della vita e della morte e manipolando la nascita e l’esistenza degli individui per il bene della razza ariana, destinata a dominare il mondo. Per il Nazionalsocialismo infatti, il destinatario e il custode dei valori più forti di una nazione era il popolo stesso, connotato dal suo originale e inimitabile Blut, il sangue originario. Il modello di vita sociale cui conformarsi era la Volksgemeinschaft, la Comunità del popolo, tenuta insieme per prima cosa dall’omogeneità di razza e dal cameratismo militare e paramilitare, quasi si trattasse di una nuova Sparta su di una scala molto più grande, destinata a dominare e asservire il mondo. La stabilità e la purezza di questo popolo ariano doveva essere raggiunta eliminando la componente ebraica, spesso ulteriormente “degradata” dall’adesione al marxismo degli ebrei. (6, 17)
Ricordiamoci che Karl Marx (1818-1883) era di origini ebraiche e che suo nonno Mordechai Halevi Marx era stato rabbino di Trier (Treviri), la città natale di Marx. Anche il Boden, il Suolo della patria, costituiva parte integrante dell’identità e delle caratteristiche del popolo. Un popolo che aveva bisogno di spazio, di nuovi territori vitali o Lebensraum, per essere pienamente indipendente e prosperare. Le grandi pianure dell’Est europeo ricche di grano e di risorse naturali apparivano come il luogo di conquista ideale per il popolo tedesco. Questo era stato nel passato il credo dei Cavalieri Teutonici, che un tempo avevano cercato di imporre la loro supremazia sull’etnia slava partendo dalle fortezze inespugnabili edificate dall’Ordine nella Prussia Orientale, per compiere crociate sanguinose e terrorizzare le popolazioni dell’Est. Dopo la colonizzazione delle pianure Bielorusse e Ucraine, gli Slavi sopravvissuti alla guerra, popoli di condizione inferiore secondo la folle, ma lucida e a suo modo coerente ideologia nazista, sarebbero stati impiegati come schiavi nella coltivazione della terra in favore dei vincitori ariani. Per gli ebrei invece e per tutte gli altri esseri umani ritenuti etnicamente e socialmente degeneri, come zingari, omosessuali e via dicendo, non ci sarebbe stato scampo.
La loro eliminazione fisica avrebbe rivestito le caratteristiche di una vera e propria operazione chirurgica, una terapia medica destinata ad eliminare un male, un’infezione che minava la salute del corpo sociale ariano e germanico, chiamato a più elevati destini e al dominio del Mondo. (17) Nel modello sociale nazista lo Stato diventava quindi l’entità suprema su cui era modellato il popolo che lo costituiva. Un popolo che doveva fedeltà e obbedienza assoluta ai suoi capi, interpreti di una missione per realizzare la quale veniva indicata chiaramente la strada. La propaganda e l’indottrinamento costante delle masse erano la parte attiva del costituirsi dell’adesione popolare a tale progetto aberrante. Ogni cittadino dello stato tedesco doveva avere la sensazione di stare adempiendo a un ben preciso impegno, doveva sentire il suo ruolo come facente parte di uno schema più ampio di cose e di intenti, il cui semplice farvi parte costituiva una ricompensa sufficiente e gratificante. Le procedure del vivere sociale e le modalità stesse con cui venne organizzato e programmato lo sterminio erano estremamente burocratizzate e spesso parcellizzate nei compiti e negli ingranaggi del sistema per tacitare il più possibile ripensamenti e coscienze. (18)
Questo tipo di organizzazione permetteva un’estrema spersonalizzazione del sistema e un’attenuazione delle responsabilità del singolo, il quale veniva ad essere inserito in una catena di comando che copriva dubbi e rimorsi attraverso il velo dell’obbedienza a ideali di fedeltà al proprio popolo e alla stirpe di appartenenza. Si trattava di un modello che abbiamo visto ancora recentemente in opera e purtroppo con successo nelle guerre che si sono succedute alla disgregazione della ex-Jugoslavia, in cui forse non per caso uno dei capi dei terribili massacri etnici in Bosnia Erzegovina, come quello di Srebrenica del 1995, era un medico: lo psichiatra serbo-bosniaco Radovan Karadžić.
Il sistema di selezione che aveva così ben funzionato nella sterilizzazione coatta venne perfezionato e messo a punto attraverso il Programma T4 di eutanasia dei malati di mente incurabili e dei malati non autosufficienti cui abbiamo accennato, istituito con una direttiva di Hitler del settembre 1939. Sviluppato operativamente anche attraverso l’apporto di Leonardo Conti (1900-1945), un medico di origini svizzere generale delle SS, capo dell’Associazione dei Medici Nazisti e dall’onnipresente Philipp Bouhler, il Programma T4 comprendeva una selezione su scala nazionale in cui i medici dei vari luoghi di cura, manicomi o cronicari per lo più, dovevano segnalare alle autorità centrali le caratteristiche di autosufficienza o meno e la gravità delle malattie presentate dai loro assistiti. Vennero quindi predisposte alcune “Case di cura”, dei centri di raccolta in cui questi poveretti andavano incontro a una valutazione medica collegiale, con la compilazione di moduli appositamente predisposti che attestassero un’inabilità al lavoro e alla vita sociale. Si procedeva infine alla loro uccisione, attraverso la somministrazione di farmaci letali, per lo più barbiturici. In seguito, per velocizzare il processo e renderlo più impersonale, eliminando il più possibile il contatto umano tra la vittima e il suo carnefice, venne usato un gas velenoso come il monossido di carbonio.
I cadaveri venivano cremati nel finto nosocomio dove era avvenuta la soppressione e i familiari ricevevano falsi certificati medici in cui li si informava della morte del loro congiunto, verificatasi per cause naturali. Con questo sistema vennero uccisi migliaia di bambini e di adulti, forse circa 70.000 individui, anche se questo numero è probabilmente sottostimato e la sua reale entità resterà sconosciuta. Una delle caratteristiche principali di questa aberrante procedura era costituita dalla sua estrema burocratizzazione, da un elenco minuzioso di operazioni e valutazioni pseudo sanitarie da compiere con il coinvolgimento di numerose figure di tecnici, periti ed esperti, il che permetteva una spersonalizzazione della responsabilità, con un minore coinvolgimento emotivo degli operatori.
Le stesse strutture destinate alle uccisioni erano denominate eufemisticamente Case di cura e assistenza della Comunità di Lavoro del Reich, il che fornisce anche un altro elemento di informazione sul progetto: chi non poteva essere produttivo, nel senso reale del termine, doveva essere eliminato. Si richiedeva infatti ai medici di compilare questionari che fornissero un’idea precisa della capacità lavorativa dei pazienti e che permettessero, in modo apparentemente distaccato e imparziale, quasi fosse una modalità scientifica, di stabilire chi avesse il diritto di continuare a vivere e chi invece andasse eliminato perché considerato di peso per la Società. Un’altra peculiarità del programma T4, come era stato previsto dalla direttiva emanata da Viktor Brack (1904-1948), che con il grado di SS Standartenführer (colonnello) era un ufficiale di collegamento tra la Cancelleria privata di Hitler (KdF) a Berlino e il Comando delle SS, consisteva nel fatto che «la siringa potesse essere usata solo dal medico». (3)
Questa disposizione affermava che la morte dovesse essere inflitta solo dai medici e che questa modalità aveva valore anche per la compilazione dei falsi certificati di morte. Brack, che aveva iniziato la propria carriera come autista di Heinrich Himmler (1900-1945), il fondatore e capo o Reichsführer del corpo delle SS, era un autentico criminale. Figlio di un medico, fu l’ideatore organizzativo di buona parte del programma di sterminio e di sterilizzazione di massa attraverso le radiazioni ionizzanti delle donne ebree internate nei campi di concentramento. Sostenne la necessità dello sfruttamento fino alla consunzione degli internati nei lager, adibendoli a lavori utili alla macchina bellica tedesca prima della loro uccisione.
Responsabile medico del progetto di eutanasia dei malati di mente fu invece il neurologo e psichiatra Werner Heyde (1902-1964), dell’Università di Würzburg, che sopravvisse alla guerra ed esercitò in seguito la sua professione per anni, come consulente e sotto falso nome, nella Germania del Nord. Vi erano sei strutture di gestione del processo di eliminazione per eutanasia. Spesso si trattava di ospedali psichiatrici convertiti. L’esperienza accumulata nel progetto criminale dell’eutanasia di stato fu la base per il successivo passo, quello dello sterminio di massa degli Ebrei nei lager appositamente costruiti. (3, 15)
medico e generale di corpo d'armata delle SS, era a capo della Sanità del Terzo Reich.
Tiergarten è un quartiere di Berlino che si trova ad Ovest del centro cittadino, un quartiere dove negli Anni Trenta del secolo scorso era situato il Gemeinnützige Stiftung für Heil und Anstaltspflege, che potrebbe essere definito come il Ministero della Salute dell’Epoca nazista.
Il Ministero si trovava al n. 4 di Tiergartenstrasse. Con il nome di programma T4, derivato dalla sede di questo ministero, che era in realtà un sottosegretariato alle dipendenze del Ministero degli Interni, fu indicato un programma di eutanasia attiva che ebbe inizio in gran segreto alla fine del 1938. (3)
Tutto era partito da una lettera di un cittadino tedesco, un padre della città di Lipsia, indirizzata ad Adolf Hitler in persona, in cui gli si chiedeva di porre fine alla vita del proprio figlio adolescente, affetto da gravi malformazioni fisiche e da un grave deficit psichico. Hitler fu colpito da questa supplica e immaginò un programma esteso di purificazione della società tedesca attraverso l’eliminazione dei soggetti considerati inabili a vivere una vita socialmente utile. Con una lettera su carta intestata recante il semplice nome del dittatore e il simbolo dell’aquila nazista, indirizzata a Philipp Bouhler (1899-1945), un alto funzionario di partito e generale delle SS, capo della cancelleria privata del Führer e al dottor Karl Brandt (1904-1948), suo medico personale, Hitler nel settembre del 1939 ordinò di istituire un procedimento di eliminazione degli adulti e dei giovani esseri umani portatori di disabilità mentali e fisiche. La lettera che egli scrisse e che si è salvata incredibilmente dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale si commenta da sola:
“… Al capo [della Cancelleria] del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili, secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute, possa essere concessa una morte pietosa …”
Iniziò così un processo di selezione ed eliminazione di inabili e malati che avrebbe portato alla soppressione criminale di decine di migliaia di esseri umani. Secondo le stime degli storici, che non sono tuttavia univoche, si sarebbe trattato dell’uccisione di un numero di persone variabile tra i 75.000 e forse gli oltre 150.000, tra cui alcune migliaia di bambini. Nella Germania del tempo queste idee non nascevano dal nulla, ma affondavano le loro radici nello uno sviluppo estremo di un possibile Darwinismo sociale. (5, 6)
Con il trascorrere degli anni, dopo l’uscita nel 1859 dell’Origine delle specie, le teorie evolutive di Charles Darwin avevano trovato degli accesi sostenitori ed estensori convinti della loro validità anche al corpo sociale. Di questi sviluppi Darwin era assolutamente innocente. La sua figura austera e la sua grande onestà intellettuale e morale non avrebbero mai approvato la pericolosa deriva ideologica condotta sulla così detta Evoluzione sociale. Secondo alcuni pensatori attivi nella seconda metà del XIX secolo e nei primi decenni del XX, come la natura si era preoccupata nei millenni di selezionare gli individui più adatti ad affrontare l’ambiente, così la società doveva e poteva farsi carico di migliorare la propria composizione umana, favorendo la vita e la riproduzione di individui dotati di caratteristiche fisiche e morali di eccellenza. Studiosi celebri e dalla personalità complessa, come l’inglese Herbert Spencer (1820-1903) e il francese David Émile Durkheim (1858-1917), avevano applicato i principi del Positivismo di Auguste Comte alla ricerca filosofica e scientifica in campo sociale. Avevano ipotizzato una modalità di costituzione delle strutture sociali e dei diversi ruoli esercitati dai protagonisti di questo processo attraverso meccanismi di selezione e di scelta dei soggetti più idonei. Durkheim vedeva lo studio della Sociologia come un vero e proprio strumento di “conoscenza medica” delle caratteristiche di una società, da cui si sarebbe potuto apprendere la natura delle eventuali “malattie sociali” e individuarne le cure. Aveva scritto Durkheim:
“… i fenomeni sociali sono cose e devono venire trattati come cose. Per dimostrare questa proposizione non è necessario filosofare sulla loro natura, né discutere le analogie che presentano con i fenomeni dei domini inferiori; basta constatare che sono l’unico datum offerto al sociologo. È una cosa tutto ciò che è dato, tutto ciò che si offre o che si impone all’osservazione. Considerare i fenomeni come cose significa considerarli in qualità di dati che costituiscono il punto di partenza della scienza: i fenomeni sociali presentano incontestabilmente questo carattere. […]
È possibile che la vita sociale sia soltanto lo sviluppo di certe nozioni; tuttavia, anche supponendo che ciò sia vero, tali nozioni non sono ottenute immediatamente. Non possiamo quindi attingerle direttamente, ma soltanto mediante la realtà fenomenica che le esprime. Non sappiamo a priori quali idee si trovino all’origine delle diverse correnti tra cui si divide la vita sociale e neppure se ve ne siano; soltanto dopo essere risaliti fino alle loro fonti sapremo da dove provengono. È necessario quindi considerare i fenomeni sociali in sé stessi, distaccati dai soggetti coscienti che li rappresentano; è necessario studiarli dal di fuori, come cose esterne, dato che si presentano a noi in questa veste …”
da Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 1895 (7)
La differenza più importante tra questi due pensatori era legata al fatto che Durkheim vedeva l’educazione e il condizionamento forniti dalla società come l’elemento fondante della personalità dell’individuo, mentre Spencer trovava centrale la scelta individuale del singolo essere umano, che doveva essere messo in condizione di vivere in una società retta dal libero mercato e da una competizione accesa e tuttavia leale e onestamente regolata. Il dibattito sulla conseguenza delle teorie evoluzionistiche e i loro effetti sulla vita umana fu molto acceso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti negli ultimi decenni del secolo XIX e nei primi del XX. In Germania questa visione culturale, che poteva portare a conclusioni di tipo eugenetico, ebbe il sostegno di prese di posizione molto nette da parte di due personalità forti e dotate di grande prestigio nel mondo accademico, lo psichiatra Alfred Hoche (1865-1943) e il giurista Karl Binding (1841-1920). I due studiosi pubblicarono insieme nel 1920 un libro che fece scalpore, dal titolo di: Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita). (3)
Si trattava di un punto di arrivo articolato e apparentemente razionale di un discorso ideologico i cui presupposti consistevano in alcune affermazioni molto discutibili. Secondo i due autori del libro era lecito praticare l’eutanasia su individui mentalmente handicappati, in quanto costoro si presumeva non avessero potuto formarsi una visione complessiva del mondo in cui vivevano e in cui erano stati in un certo senso gettati in modo non richiesto, per usare dei termini cari alla filosofia esistenzialista e che saranno coniati qualche anno dopo. I malati gravi che avessero deciso di non vivere ulteriormente la loro condizione di sofferenza «dovevano essere aiutati a morire», in quanto la loro morte non poteva essere interpretata come un vero e proprio assassinio, ma come l’evitare una fine penosa e dolorosa. Terzo e ancora più controverso punto, lo stato aveva il diritto di disfarsi di esseri umani incapaci di comprendere i termini della propria esistenza e di mostrare gratitudine nei confronti di chi li aveva in cura. Secondo Hoche, questi poveretti costituivano una zavorra per la nazione ed un peso economico ingiustificato ed inutile. Bisogna sottolineare come queste teorie allora in auge in Germania, perlomeno assai discutibili, avessero trovato un loro sostegno e giustificazione anche a partire da idee che circolavano nel mondo anglosassone in quegli stessi anni. (8, 9)
Erano state in parte ispirate, in senso più generico, dalle idee di Francis Galton (1822-1911). Galton era uno studioso geniale, per molti versi autodidatta. Cugino di Charles Darwin, aveva pubblicato nel 1869, dieci anni dopo l’uscita dell’Origine delle Specie, uno dei suoi molteplici e innovativi studi dal titolo di Hereditary Genius. In questo e altri scritti lo studioso inglese si presentò come l’inventore e il sostenitore autorevole del termine stesso di Eugenetica, cioè della disciplina che avrebbe dovuto interessarsi delle possibilità di “miglioramento” della specie umana attraverso l’utilizzo di fattori esterni all’evoluzione naturale e introdotti dall’uomo stesso. (10)
Si trattava dello sviluppo in chiave evoluzionistica di alcuni concetti presenti nell’opera di Lambert-Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874), un matematico e astronomo belga, che aveva scritto qualche decennio prima opere importanti per la conoscenza statistica dei fenomeni naturali e che si era proposto di riuscire a definire lo sviluppo del comportamento umano utilizzando le leggi della matematica. Quételet si era servito della modalità statistica nota come analisi multivariata, che a suo parere si sarebbe potuta adattare perfettamente allo studio di fenomeni scientifici complessi come il comportamento. Non quello di ogni persona, ma di un ipotetico Uomo medio statistico, cui fare riferimento in ogni calcolo. (3, 5)
Secondo le idee di Galton, la natura da sola non avrebbe avuto degli intenti evolutivi di tipo esclusivamente positivo e sarebbe stato pertanto compito dell’uomo intervenire, attraverso l’intelligenza e la ragione, per modificare il corso naturale degli eventi e perfezionare le caratteristiche della specie. Un perfezionamento che fu interpretato da alcuni come la licenza data all’uomo di interferire attivamente sulla nascita e sulla morte, selezionando e scegliendo i più adatti e scartando gli inetti all’esistenza. Le tesi di Galton, improntate ad un forte darwinismo sociale, furono riprese e condotte verso degli sviluppi pericolosi, che furono espressi nel 1895 dallo scrittore tedesco Adolf Jost nel suo libro Das Recth auf den eigenen Tod (Il diritto alla propria morte). Si trattò di un testo che fece scuola all’interno delle prospettive eugenetiche del Nazismo. (3, 9)
In questo libro Jost sosteneva la tesi che allo Stato spettasse l’ultima parola su come organizzare la nascita e soprattutto la morte degli individui, al fine di preservare il benessere e permettere il progresso dell’intera nazione. Bisogna segnalare come tesi del genere germogliavano in biologia e in medicina proprio negli stessi anni in cui avveniva la separazione epistemologica tra la medicina e le altre scienze della natura. Separazione che vide appunto negli ultimi tre decenni del secolo XIX e nei primi del XX il suo giro di boa e l’imboccare una strada che appare ancora oggi senza ritorno o ripensamenti. La medicina abbracciò, senza critiche epistemologiche, il metodo sperimentale e statistico, abbandonando ogni riflessione metodologica che permettesse ai ricercatori di tener conto della relatività delle loro scoperte e dell’impossibilità di raggiungere nello studio del corpo umano e di tutte le altre scienze a esso collegate delle verità scientifiche assolute. Si separò pertanto dalla più modesta e consapevole visione ideologica e programmatica delle altre discipline scientifiche, come Fisica, Matematica, Chimica, che si andavano invece in quegli stessi anni interrogando nelle loro ricerche sull’impossibilità di ottenere dei risultati scientifici assolutamente esatti e indiscutibilmente veri. (11, 12)
La costruzione di una grande nazione pan-germanica, voluta dal cancelliere prussiano Otto von Bismark nella seconda parte dell’Ottocento, si era basata da un punto di vista ideologico sull’affermazione della superiorità dello Stato tedesco e dei suoi abitanti su ogni altra popolazione europea. Pilastro portante di tale proclamata verità era stata l’esaltazione della capacità del cittadino del Secondo Reich imperiale di volere e sapere subordinare le proprie esigenze di individuo a quelle della patria, che gli assicurava un benessere sociale avanzato rispetto ad altri stati europei dell’epoca. Privilegi pagati tuttavia con la rinuncia all’affermazione di ogni dissenso politico radicale e con l’acquiescenza alle decisioni del potere costituito, uno stato autoritario e in quanto tale legittimato nella sua autorevolezza. (6)
Il manifesto ideologico del nazismo fu il Mein Kampf (La mia battaglia), il libro scritto dallo stesso Adolf Hitler tra il 1923 e il 1924, durante la prigionia seguita al fallito colpo di stato di Monaco di Baviera. Le idee portanti di quel testo erano l’ideale della sottomissione incondizionata al capo e l’ineguaglianza naturale tra gli uomini, principio in base al quale le masse si dovevano sottomettere in modo incondizionato ai loro leader e le razze “inferiori” a quelle “superiori”. Tali idee aberranti trovarono sostegno e divulgazione grazie all’opera di due personalità dotate di buona cultura e di ottima capacità di utilizzo mediatico del loro sapere, aderenti entusiasti e consapevoli al Nazionalsocialismo. Si trattò dell’ideologo del partito nazista, Alfred Rosemberg (1893-1946) e del ministro della propaganda, il tristemente noto Joseph Goebbels (1897-1945), il principale responsabile della formidabile macchina di consenso costruita dal regime. Goebbels, che si era laureato in filosofia nella prestigiosa università di Heidelberg, utilizzò in modo geniale i moderni mezzi di comunicazione, come la radio e il cinema, per esaltare le idee di Hitler e del Nazionalsocialismo, deformando sistematicamente la realtà e adattandola alla visione ideologica e di potere del regime. Costruì sapientemente il culto della personalità del Führer, dell’obbedienza e della fiducia cieca nelle decisioni del dittatore.
Diverso è il discorso da farsi per Rosemberg. Considerato il custode e il divulgatore del nucleo essenziale e più importante del pensiero di Hitler, Rosemberg fu autore tra l’altro di un libro utilizzato come materia d’insegnamento nelle scuole tedesche e che gli diede notorietà internazionale. Questo testo aberrante recava il titolo di Il Mito del XX Secolo (Der Mythus des 20 Jahrhunderts). Nel suo libro Rosemberg riprendeva le idee del conte Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), un diplomatico e scrittore francese, celebre per la sua opera Essai sur l'inégalité des races humaines (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane). De Gobineau, autore fondante per il razzismo europeo, sosteneva la divisione dell’Umanità in presunte razze, concetto che non dovrebbe trovare più alcuna credibilità da un punto di vista scientifico e biologico.
Grazie alla Biologia molecolare sappiamo infatti che il patrimonio genetico degli esseri umani è costante e identico nei suoi tratti fondamentali a dispetto delle diverse tipologie morfologiche esteriori. All’epoca in cui queste teorie furono formulate, l’apparente razionalità di una supremazia dell’uomo bianco e tra quest’ultimo, dell’esistenza di una razza superiore nordica e ariana, rivestivano una loro autorevolezza legata al pregiudizio e all’interesse di sopraffazione politica ed economica delle grandi potenze, impegnate nell’opera di asservimento coloniale del Mondo. Secondo le idee di Rosemberg gli Ariani erano stati i fondatori e gli animatori di tutte le grandi civiltà del passato in un percorso storico interpretato in modo delirante, che comprendeva l’antico Impero Persiano, Sparta e i Dori, i Romani e così via. Stampato in milioni di copie, il libro di Rosemberg conteneva anche un’interpretazione particolare del Cristianesimo, in cui la figura di Gesù Cristo veniva presentata come quella di un superuomo liberatore dell’umanità dall’elemento ebraico.
Anche se appare difficile credervi, una parte importante delle idee da cui traeva ispirazione Rosemberg provenivano dagli Stati Uniti. Quel grande paese era visto da alcuni nazisti come una nazione simbolo, sia per la sua storia di espansione ad Ovest, con lo sterminio e il confinamento degli Indiani, razza inferiore, nelle riserve, che per la politica di discriminazione razziale praticata negli Stati del Sud.
A questa visione socio-politica facevano da sostegno le idee dello scrittore e storico americano Lothrop Stoddard (1883-1950), in voga all’epoca. Stoddard si era scagliato con forza nei suoi scritti contro il pericolo bolscevico e il Comunismo, responsabile per lui dell’omologazione delle diverse civiltà verso il basso e nemico delle qualità individuali. (13, 14)
Secondo Stoddard, la Rivoluzione russa dell’Ottobre del 1917 era stata una vera e propria battaglia tra le Civiltà dell’Occidente e le masse brutali dell’Est Europa. Se la razza bianca voleva veramente prevalere nel confronto con questi sub-umani, doveva prendere le distanze dalle idee liberali e troppo arrendevoli delle grandi democrazie europee e americane per adottare drastici cambiamenti di politica economica e sociale, introducendo ad esempio un programma di eugenetica per migliorare il proprio milieu biologico. Rosemberg, riprendendo in parte le idee di Stoddard, affermò che le popolazioni slave, da lui considerate di etnia più infima rispetto a quelle dell’Europa del Nord, avendo scelto il Comunismo avevano dato vita ad una razza di Untermensch (Uomini di rango inferiore). Una razza che costituiva un pericolo per l’Occidente e la sua stessa civiltà e cultura. (5, 14)
Nei primi decenni del XX secolo gli Stati Uniti furono la nazione all’avanguardia dell’Eugenetica mondiale. La prima legge in questo senso venne varata nel 1907 nello stato dell'Indiana e riguardava la sterilizzazione forzata. (3)
Era una normativa rivolta ai ricoverati in ospedali psichiatrici e a carico all’assistenza statale. Delle apposite commissioni di esperti, formate da medici e giuristi, avrebbero dovuto valutare il grado della loro deficienza mentale sulla scorta di appositi test psicologici. Coloro che venivano ritenuti troppo gravi e non autosufficienti venivano sottoposti a sterilizzazione coatta. Negli anni seguenti tale pratica si estese anche ad altri stati americani, oltre venti, tanto che le sterilizzazioni forzate furono alcune decine di migliaia. Anche in Svezia la prassi della sterilizzazione per i malati e gli inabili mentali conobbe in quegli anni un certo successo. Si trattava di un’applicazione pratica delle politiche di igiene razziale che erano germogliate dal Darwinismo estremista, ma che affondavano le loro radici salde e difficilmente estirpabili nel convincimento positivista che ogni aspetto della vita dell’uomo fosse migliorabile intervenendo in modo razionale sulla natura biologica.
L’oggettività sperimentale assoluta rivendicata e ricercata dalle Scienze, che la Medicina e la Biologia di fine secolo accettarono con pochi ripensamenti epistemologici e morali, furono il terreno fecondo su cui germogliò la pianta della discriminazione razziale. L’opinione pubblica rimase affascinata da questo messaggio ideologico, ma apparentemente e saldamente scientifico, un messaggio che asseriva come si potesse intervenire sulle persone migliorandole, allo stesso modo di un allevatore che selezioni vacche da latte o cavalli da corsa. La politica, la filosofia e la religione non contrastarono e disapprovarono abbastanza queste idee, che sembravano indubitabili, grazie al prestigio che la medicina moderna si stava guadagnando, affrancando l’umanità da flagelli secolari come la sifilide e dalle malattie infettive in genere. Quando la Germania nazista iniziò a praticare l’eugenetica, l’esempio costituito dagli Stati Uniti attraverso la sterilizzazione forzata risultò un punto di inizio per un processo che sarebbe giunto progressivamente ad estendere la gravità dei suoi interventi, passando dalla sterilizzazione dei malati di mente non autosufficienti all’eutanasia degli stessi e di tutti i soggetti che fossero, indipendentemente dall’età, in una condizione di minorità e di non adeguatezza ai criteri di una normalità presunta. Criteri che erano stabiliti da un insieme di medici appositamente selezionati e formati dallo stato.
La Germania nazista iniziò ad applicare un programma di sterilizzazione forzata a partire dal 1933. Subito dopo la sua conquista del potere, in sintonia con la visione ideologica che abbiamo descritto, il regime nazista diede vita alle prime politiche di igiene razziale. Il 14 luglio 1933 fu discussa dal parlamento tedesco, egemonizzato e condizionato dal Partito nazionalsocialista, la Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses (Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie). La legge fu promulgata il 25 luglio, appena dopo la firma del Concordato con la Chiesa Cattolica avvenuta il 20 dello stesso mese. (15, 16)
La legge del 1933 stabiliva che le persone affette da una serie di malattie ereditarie o di cui si supponeva un’origine genetica, come la schizofrenia, l’epilessia, le varie forme di cecità e sordità, la Corea di Huntington e le deficienze mentali in genere, fossero sottoposte a sterilizzazione forzata. (3)
A questo insieme di sfortunati esseri umani, incolpevoli del loro stato, la legge nazista aggiungeva gli alcolisti cronici, in una sorta di condanna morale. Il Ministero degli Interni tedesco, da cui dipendeva anche quello della Sanità, calcolò in circa 400.000 il numero delle persone da sterilizzare. Questo ministero era retto da Wilhelm Frick (1877-1946), un avvocato bavarese e nazista della prima ora, che sarebbe stato uno dei principali autori delle leggi antiebraiche prima di essere condannato a morte e giustiziato dopo il Processo di Norimberga.
Furono istituiti dei Tribunali speciali, chiamati Erbgesundheitsgerichten (Tribunali per la Sanità ereditaria), formati da tre membri: due medici e un giudice distrettuale. Questi organi medico-giuridici avevano il compito di esaminare i pazienti nelle case di cura, negli istituti psichiatrici, nelle scuole per disabili e nelle prigioni, per stabilire coloro che dovevano essere sterilizzati e procedere successivamente all'intervento. Tutti i responsabili degli istituti dove potevano trovarsi i candidati alla sterilizzazione, i medici, i direttori, gli insegnanti e via dicendo, avevano l'obbligo legale di riferire ai funzionari dei Tribunali i nomi di coloro che a loro avviso rientravano nelle categorie su cui intervenire, violando così ogni codice deontologico e umano. Nonostante le proteste di qualche familiare e i ricorsi avanzati dai parenti dei pazienti, si ritiene che tra il 1933 e il 1939 siano state sterilizzate circa 350.000 persone.
La legge venne utilizzata come uno strumento punitivo, un mezzo utile in molti casi per mettere fuori gioco dissidenti e persone scomode politicamente. Vennero di conseguenza sterilizzate molte prostitute e anche chi non era affetto da malattie ereditarie. Martin Bormann (1900-1945), segretario personale di Hitler e vera eminenza grigia del regime, fece emanare una direttiva nella quale era specificato che in una diagnosi di debolezza mentale era necessario tener conto del comportamento politico e morale della persona esaminata, una chiara allusione alla possibilità di colpire i nemici del Partito attraverso il provvedimento e di soprassedere invece nel caso opposto. Esistono alcuni indizi che il programma di sterilizzazione di massa dovesse essere esteso anche alle persone affette da disabilità fisiche in genere, anche se tale idea venne espressa con cautela, in quanto il potente ministro della propaganda Joseph Goebbels soffriva degli esiti di una malattia alla gamba sinistra e zoppicava nel suo incedere. Lo stesso Philipp Bouhler (1899-1945), generale delle SS e uno dei responsabili organizzativi di questo progetto criminale, era claudicante a causa di una ferita alla gamba riportata nel corso della Prima Guerra Mondiale e sarebbe stato pertanto imbarazzante tener conto delle condizioni fisiche di questi due importanti gerarchi. (3, 11)
Negli anni seguenti il 1937 le politiche di riarmo intraprese dalla Germania e la necessità di manodopera fecero in modo che molti potenziali pazienti risultassero esclusi dall'applicazione di questa legge per la necessità del loro impiego come forza lavoro nell’industria pesante. Il numero di sterilizzazioni forzate diminuì. La maggior parte dei medici tedeschi non protestò contro l'applicazione di una legislazione che molti di loro ritenevano addirittura giusta in base alle idee scientifiche e antropologiche del tempo. La Chiesa Cattolica, pur deplorando il provvedimento, si tenne in disparte senza esercitare alcun tentativo di disobbedienza civile o di richiamo ai principi della libertà di coscienza, limitandosi a chiedere che i medici cattolici fossero dispensati dall'applicazione della legge e dal far parte delle commissioni selezionatrici dei candidati alla sterilizzazione. La pratica della sterilizzazione forzata fu dunque l’inizio di un percorso criminale che avrebbe portato in pochi anni all’eutanasia nei confronti dei malati di mente, alle esecuzioni di massa dei prigionieri di guerra e dei civili durante la campagne di Polonia e di Russia e all’abominio dei campi di sterminio. (3, 16)
Come abbiamo illustrato, l’ideologia nazista appoggiava buona parte delle proprie teorie deliranti su di una base pseudo-scientifica, su di una forma di darwinismo sociale più estremo di quello anglosassone. L’uomo tedesco e nazista poteva e doveva intervenire in modo diretto sulla natura, assumendo il controllo della vita e della morte e manipolando la nascita e l’esistenza degli individui per il bene della razza ariana, destinata a dominare il mondo. Per il Nazionalsocialismo infatti, il destinatario e il custode dei valori più forti di una nazione era il popolo stesso, connotato dal suo originale e inimitabile Blut, il sangue originario. Il modello di vita sociale cui conformarsi era la Volksgemeinschaft, la Comunità del popolo, tenuta insieme per prima cosa dall’omogeneità di razza e dal cameratismo militare e paramilitare, quasi si trattasse di una nuova Sparta su di una scala molto più grande, destinata a dominare e asservire il mondo. La stabilità e la purezza di questo popolo ariano doveva essere raggiunta eliminando la componente ebraica, spesso ulteriormente “degradata” dall’adesione al marxismo degli ebrei. (6, 17)
Ricordiamoci che Karl Marx (1818-1883) era di origini ebraiche e che suo nonno Mordechai Halevi Marx era stato rabbino di Trier (Treviri), la città natale di Marx. Anche il Boden, il Suolo della patria, costituiva parte integrante dell’identità e delle caratteristiche del popolo. Un popolo che aveva bisogno di spazio, di nuovi territori vitali o Lebensraum, per essere pienamente indipendente e prosperare. Le grandi pianure dell’Est europeo ricche di grano e di risorse naturali apparivano come il luogo di conquista ideale per il popolo tedesco. Questo era stato nel passato il credo dei Cavalieri Teutonici, che un tempo avevano cercato di imporre la loro supremazia sull’etnia slava partendo dalle fortezze inespugnabili edificate dall’Ordine nella Prussia Orientale, per compiere crociate sanguinose e terrorizzare le popolazioni dell’Est. Dopo la colonizzazione delle pianure Bielorusse e Ucraine, gli Slavi sopravvissuti alla guerra, popoli di condizione inferiore secondo la folle, ma lucida e a suo modo coerente ideologia nazista, sarebbero stati impiegati come schiavi nella coltivazione della terra in favore dei vincitori ariani. Per gli ebrei invece e per tutte gli altri esseri umani ritenuti etnicamente e socialmente degeneri, come zingari, omosessuali e via dicendo, non ci sarebbe stato scampo.
La loro eliminazione fisica avrebbe rivestito le caratteristiche di una vera e propria operazione chirurgica, una terapia medica destinata ad eliminare un male, un’infezione che minava la salute del corpo sociale ariano e germanico, chiamato a più elevati destini e al dominio del Mondo. (17) Nel modello sociale nazista lo Stato diventava quindi l’entità suprema su cui era modellato il popolo che lo costituiva. Un popolo che doveva fedeltà e obbedienza assoluta ai suoi capi, interpreti di una missione per realizzare la quale veniva indicata chiaramente la strada. La propaganda e l’indottrinamento costante delle masse erano la parte attiva del costituirsi dell’adesione popolare a tale progetto aberrante. Ogni cittadino dello stato tedesco doveva avere la sensazione di stare adempiendo a un ben preciso impegno, doveva sentire il suo ruolo come facente parte di uno schema più ampio di cose e di intenti, il cui semplice farvi parte costituiva una ricompensa sufficiente e gratificante. Le procedure del vivere sociale e le modalità stesse con cui venne organizzato e programmato lo sterminio erano estremamente burocratizzate e spesso parcellizzate nei compiti e negli ingranaggi del sistema per tacitare il più possibile ripensamenti e coscienze. (18)
Questo tipo di organizzazione permetteva un’estrema spersonalizzazione del sistema e un’attenuazione delle responsabilità del singolo, il quale veniva ad essere inserito in una catena di comando che copriva dubbi e rimorsi attraverso il velo dell’obbedienza a ideali di fedeltà al proprio popolo e alla stirpe di appartenenza. Si trattava di un modello che abbiamo visto ancora recentemente in opera e purtroppo con successo nelle guerre che si sono succedute alla disgregazione della ex-Jugoslavia, in cui forse non per caso uno dei capi dei terribili massacri etnici in Bosnia Erzegovina, come quello di Srebrenica del 1995, era un medico: lo psichiatra serbo-bosniaco Radovan Karadžić.
Il sistema di selezione che aveva così ben funzionato nella sterilizzazione coatta venne perfezionato e messo a punto attraverso il Programma T4 di eutanasia dei malati di mente incurabili e dei malati non autosufficienti cui abbiamo accennato, istituito con una direttiva di Hitler del settembre 1939. Sviluppato operativamente anche attraverso l’apporto di Leonardo Conti (1900-1945), un medico di origini svizzere generale delle SS, capo dell’Associazione dei Medici Nazisti e dall’onnipresente Philipp Bouhler, il Programma T4 comprendeva una selezione su scala nazionale in cui i medici dei vari luoghi di cura, manicomi o cronicari per lo più, dovevano segnalare alle autorità centrali le caratteristiche di autosufficienza o meno e la gravità delle malattie presentate dai loro assistiti. Vennero quindi predisposte alcune “Case di cura”, dei centri di raccolta in cui questi poveretti andavano incontro a una valutazione medica collegiale, con la compilazione di moduli appositamente predisposti che attestassero un’inabilità al lavoro e alla vita sociale. Si procedeva infine alla loro uccisione, attraverso la somministrazione di farmaci letali, per lo più barbiturici. In seguito, per velocizzare il processo e renderlo più impersonale, eliminando il più possibile il contatto umano tra la vittima e il suo carnefice, venne usato un gas velenoso come il monossido di carbonio.
I cadaveri venivano cremati nel finto nosocomio dove era avvenuta la soppressione e i familiari ricevevano falsi certificati medici in cui li si informava della morte del loro congiunto, verificatasi per cause naturali. Con questo sistema vennero uccisi migliaia di bambini e di adulti, forse circa 70.000 individui, anche se questo numero è probabilmente sottostimato e la sua reale entità resterà sconosciuta. Una delle caratteristiche principali di questa aberrante procedura era costituita dalla sua estrema burocratizzazione, da un elenco minuzioso di operazioni e valutazioni pseudo sanitarie da compiere con il coinvolgimento di numerose figure di tecnici, periti ed esperti, il che permetteva una spersonalizzazione della responsabilità, con un minore coinvolgimento emotivo degli operatori.
Le stesse strutture destinate alle uccisioni erano denominate eufemisticamente Case di cura e assistenza della Comunità di Lavoro del Reich, il che fornisce anche un altro elemento di informazione sul progetto: chi non poteva essere produttivo, nel senso reale del termine, doveva essere eliminato. Si richiedeva infatti ai medici di compilare questionari che fornissero un’idea precisa della capacità lavorativa dei pazienti e che permettessero, in modo apparentemente distaccato e imparziale, quasi fosse una modalità scientifica, di stabilire chi avesse il diritto di continuare a vivere e chi invece andasse eliminato perché considerato di peso per la Società. Un’altra peculiarità del programma T4, come era stato previsto dalla direttiva emanata da Viktor Brack (1904-1948), che con il grado di SS Standartenführer (colonnello) era un ufficiale di collegamento tra la Cancelleria privata di Hitler (KdF) a Berlino e il Comando delle SS, consisteva nel fatto che «la siringa potesse essere usata solo dal medico». (3)
Questa disposizione affermava che la morte dovesse essere inflitta solo dai medici e che questa modalità aveva valore anche per la compilazione dei falsi certificati di morte. Brack, che aveva iniziato la propria carriera come autista di Heinrich Himmler (1900-1945), il fondatore e capo o Reichsführer del corpo delle SS, era un autentico criminale. Figlio di un medico, fu l’ideatore organizzativo di buona parte del programma di sterminio e di sterilizzazione di massa attraverso le radiazioni ionizzanti delle donne ebree internate nei campi di concentramento. Sostenne la necessità dello sfruttamento fino alla consunzione degli internati nei lager, adibendoli a lavori utili alla macchina bellica tedesca prima della loro uccisione.
Responsabile medico del progetto di eutanasia dei malati di mente fu invece il neurologo e psichiatra Werner Heyde (1902-1964), dell’Università di Würzburg, che sopravvisse alla guerra ed esercitò in seguito la sua professione per anni, come consulente e sotto falso nome, nella Germania del Nord. Vi erano sei strutture di gestione del processo di eliminazione per eutanasia. Spesso si trattava di ospedali psichiatrici convertiti. L’esperienza accumulata nel progetto criminale dell’eutanasia di stato fu la base per il successivo passo, quello dello sterminio di massa degli Ebrei nei lager appositamente costruiti. (3, 15)
3. La notte della medicina e dell’umanità
Il capitano medico delle SS Josef Mengele,
divenne tristemente noto anche per i suoi "esperimenti" sulle coppie di gemelli. Il criminale morì nel 1979, dopo essere fuggito in Sud America.
“… Il camerata Riccardo Forti ci scrive da Genova quanto segue: «Parlare di villeggiatura, di stagione balneare, al momento attuale può parere una stonatura; ma siccome è ben certo che molte famiglie si recheranno anche quest’anno ai bagni e il Ministero delle Comunicazioni ha recentemente annunciato forti riduzioni ferroviarie per le località balneari, spero che non vi dorrete se raffronto – dal punto di vista razziale – un argomento di questo genere. Fra i villeggianti, si può starne sicuri, gli ebrei saranno in percentuale molto notevole: esenti dal servizio militare; esenti anche dai pensieri della guerra, poiché nessun loro parente si trova alle armi; esenti persino dalle preoccupazioni d’indole generale che sono causate dal conflitto, poiché a questi senza-patria ben poco interessa di quel che si svolge attorno a loro; ben bene impinguatisi durante l’inverno e la primavera con i lauti affari che la credulità degli ariani e la mitezza delle leggi ha permesso loro di fare; non c’è dubbio che i giudei d’Italia avranno una gran voglia di spendere e di divertirsi e si riverseranno sulle nostre spiagge. Si ripeterà così l’avvilente spettacolo degli scorsi anni: tutte le spiagge italiane infestate da un gran numero di ebrei, in una promiscuità con la gioventù della nostra razza, i cui pericoli non c’è bisogno di sottolineare. Se nelle normali manifestazioni della vita la promiscuità con gli ebrei è degradante e dolorosa, sulle spiagge, ove le conoscenze, le amicizie e i cosiddetti “flirts” sono facilissimi, la presenza dei giudei, che sanno mescolarsi agli ariani con somma abilità, costituisce uno sconcio deplorevole. Non si vuole impedire alle famiglie ebree di godere il mare e il sole dell’Italia, dato che possono tranquillamente e legalmente goderne tanti beni; si vuole soltanto operare anche qui una netta discriminazione, che eviti il pericolo di nuovi contagi. Si istituiscano dunque stabilimenti balneari riservati agli ebrei; essi destinino agli ebrei – nei grandi stabilimenti – dei reparti speciali. Chi vorrà vedere i figli di Giuda saprà dove trovarli; e chi vorrà godersi la pace marina senza un così triste spettacolo, potrà – vivaddio! – farne a meno» …”
da Difesa della razza, IV, 14: 31, sezione “Questionario”, 20 maggio 1941,
citato in Pisanty V., La difesa della razza, Milano, 2006 (19)
Il 22 giugno del 1941 prese il via l’Operazione Barbarossa. Centosettanta divisioni tedesche invasero l’Unione Sovietica. Si trattava della più grande offensiva di guerra mai lanciata da un esercito nella storia dell’Umanità. Una massa di oltre tre milioni di uomini dilagò verso Oriente, nelle grandi pianure russe, a Nord verso Leningrado, al centro verso Mosca e a Sud, verso il bacino del Volga e i pozzi petroliferi del Caucaso. Non si trattava di una campagna militare come tutte le altre. Era una vera e propria operazione di sterminio pianificata e organizzata per conquistare e annettere alla Germania il Lebensraum, lo Spazio vitale, l’estensione territoriale necessaria per poter entrare in possesso delle risorse geografiche, agricole e economiche dove il popolo di lingua tedesca potesse trovare una sua collocazione più ampia. Le popolazioni slave, nel folle disegno hitleriano, avrebbero dovuto diventare gli schiavi ed i manovali destinati ad alimentare le necessità della “razza ariana” che si sarebbe insediata nei nuovi grandi spazi, dopo la bonifica di questi dai comunisti e dagli ebrei. Hitler presentò quest’offensiva come il regolamento dei conti finale con il Comunismo e l’ideologia marxista. Il Nazismo era nato infatti alla fine della Prima Guerra Mondiale anche come movimento di opposizione al Socialismo tedesco. L’Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra, che regolava il comportamento da tenersi nei confronti dei prigionieri di guerra e anche questo fu uno dei motivi che stettero pretestuosamente alla base di tanta ferocia. L’immenso numero di soldati russi catturati fu sottoposto a un eccidio studiato con lucida criminalità. Per prima cosa furono passati per le armi i commissari politici dell’Armata Rossa, poi gli ufficiali e i quadri di comando. Si voleva annullare ogni capacità di reazione della popolazione russa, che doveva pensare di trovarsi di fronte a un nemico invincibile e spietato. Vennero creati dei veri e propri corpi speciali di eliminazione, chiamati Einsatzgruppen (Unità operative di eliminazione), la cui costituzione può essere attribuita al braccio destro del capo delle SS Heinrich Himmler (1900-1945), il generale delle SS Reinhard Heydrich (1904-1942). (3, 15)
Questi corpi speciali, composti da SS e milizie di polizia, giungevano nelle loro aeree operative appena le truppe ordinarie della Wehrmacht si erano spostate verso Oriente e procedevano alla messa in sicurezza degli edifici pubblici, allo sterminio dei prigionieri di guerra e delle popolazioni civili di religione ebraica, senza risparmiare, per un ordine emanato dallo stesso Himmler, nemmeno le donne e i bambini. Gli eccidi operati dalle truppe tedesche non si limitarono quindi ai soldati prigionieri, ma interessarono con un’accuratezza capillare anche le popolazioni civili, soprattutto se di origine o di religione ebraica. Si calcola che nei tre anni successivi al giugno del 1941 siano state uccise dalle quattro unità militari che costituivano le Einsatzgruppen (denominate: A, B, C, D) qualcosa come oltre un milione e mezzo di persone. Le milizie tedesche addette a questo compito disumano e criminale dovettero far fronte a episodi sporadici di insubordinazione, all’insorgere di depressioni acute nei soldati responsabili degli eccidi, a rifiuti di quella realtà orribile. Episodi di rigetto umano che giunsero fino al suicidio. La psiche di alcuni di quei miliziani sembrava rifiutare nell’inconscio la ragione di certi massacri. Il comandante di una delle unità speciali di eliminazione arrivò a scrivere a Himmler della necessità di trovare un metodo meno diretto e più “umano” dell’uso delle armi da fuoco contro donne e bambini a distanza ravvicinata, una modalità che destabilizzava il morale degli uomini al suo comando. (3)
Per la particolare efferatezza deve essere ricordato il massacro di Babi Yar, in Ucraina, un grande fossato alla periferia della città di Kiev, dove nel settembre del 1941 l’esercito tedesco, con l’aiuto della polizia collaborazionista ucraina, massacrò in soli due giorni oltre trentamila ebrei, uomini, donne, vecchi e bambini. Alcuni ufficiali nazisti, come Viktor Brack, suggerirono ad Himmler di impiegare questa grande massa di prigionieri in lavori pesanti per l’industria degli armamenti e venne allora deciso di deportare questi uomini nelle retrovie fino al complesso dei campi di concentramento che le SS avevano edificato a partire dalla seconda parte degli anni Trenta, inizialmente per rinchiudervi i dissidenti politici e i nemici del regime. A questi prigionieri slavi, russi, ucraini, polacchi, bielorussi, vennero aggiunti anche milioni di ebrei, rastrellati in tutte le città dell’Est europeo e nell’Europa Occidentale, ovunque le truppe naziste avessero il potere di farlo. Li attendevano i Lager, le fabbriche della morte basate sullo sterminio dei non idonei al lavoro e su di una calcolata forma di annientamento per denutrizione progressiva. Si trattava della realizzazione concreta della Soluzione finale della questione ebraica (Endlösung der Judenfrage), come era stata elaborata a partire dalla fine degli Anni Trenta. Secondo il progetto originario, poco conosciuto e particolarmente folle, gli Ebrei rastrellati in tutta l’Europa avrebbero dovuto essere estradati e confinati in Madagascar. Tuttavia quest’ipotesi delirante non poté essere realizzata. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale la marina britannica era padrona dei mari e organizzare un trasporto del genere di milioni di persone sarebbe costato troppo, sia in termini economici che umani. Il punto di svolta nella esecuzione dell’Olocausto fu costituito dalla così detta Riunione o Conferenza di Wannsee, del 20 gennaio 1942. Wannsee è un lago vicino a Berlino. In questa località, in una splendida villa circondata da un magnifico parco e residenza di Reinhard Heydrich (1904-1942), generale delle SS e braccio destro e uomo di fiducia di Himmler, a mezzogiorno di quel giorno fatale, si svolse la riunione che avrebbe dato il via al più orrendo massacro della storia umana. Con una lettera del 31 luglio del 1941 Heydrich era stato incaricato da Hermann Göring, il maresciallo dell’aria ed erede designato di Hitler, di porre in essere tutti i provvedimenti necessari alla liquidazione della popolazione ebraica. Le conclusioni operative di quella riunione furono di avviare un processo di eliminazione per sterminio di tutti gli Ebrei presenti sul territorio europeo, valutati da Heydrich e Himmler in circa undici milioni di individui. Gli Ebrei avrebbero dovuto essere avviati verso i campi di lavoro e di annientamento predisposti per loro nell’Est Europa. I lager destinati all’Olocausto erano stati costruiti nella Polonia occupata, fuori dalle frontiere storiche del Reich, per evitare un’eccessiva pubblicità alla cosa. I deportati sarebbero stati adibiti a lavori utili all’industria bellica con turni di lavoro massacranti e quindi sterminati progressivamente, dopo un annientamento fisico e morale calcolato. Così concluse quel giorno a Wannsee il suo intervento Reinhard Heydrich:
“… Ora, nel quadro della soluzione finale della questione ebraica e sotto la necessaria guida, gli ebrei devono essere utilizzati all'Est nei compiti lavorativi giudicati più opportuni. Inquadrati in grandi colonne e separati per sesso, gli ebrei abili al lavoro saranno condotti in quei territori a costruire strade, operazione durante la quale senza dubbio una gran parte di loro soccomberà per riduzione naturale …”
Della Riunione di Wannsee, tenutasi nella massima riservatezza, venne steso un verbale redatto in sole trenta copie, delle quali ci è pervenuta una soltanto, la sedicesima. Questa, composta di quindici fogli ingialliti e con annotazioni autografe, era appartenuta a Martin Luther (1895-1945), sottosegretario del Ministero degli Esteri e uno degli alti funzionari presenti all’incontro. Una riunione di lavoro multidisciplinare, quella di Wannsee, che vide riuniti allo stesso tavolo per programmare lo sterminio di milioni di esseri umani diverse competenze e rappresentanti dei vari apparati della macchina bellica tedesca. La deportazione e lo sterminio di massa degli Ebrei dalle nazioni europee occupate era infatti un proposito criminale difficile da realizzare, con enormi e complessi aspetti organizzativi. Prevedeva dei buoni rapporti con le autorità dei governi collaborazionisti, un’organizzazione efficiente di trasporto ferroviario, enormi lager nelle regioni polacche occupate nel 1939 dove radunare e procedere allo sfruttamento e alla eliminazione fisica di centinaia di migliaia di esseri umani. Si sarebbe dovuto trattare di vere e proprie fabbriche della morte, capaci di annullare l’esistenza di migliaia di vite ogni giorno. Annullarle nel senso letterale e fisico del termine, grazie all’utilizzo di forni crematori efficienti e rapidi, capaci di incenerire centinaia di corpi ogni giorno e di non lasciarne alcuna traccia. Per questo motivo i funzionari dei vari organi di governo del Reich offrirono la loro opera in modo sinergico, intervenendo nelle diverse tappe del processo di sterminio. La Legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco del 15 settembre 1935 e altre normative e regolamenti successivi del Terzo Reich, fissavano con criteri di assoluta e maniacale precisione chi potesse fregiarsi della condizione di cittadino tedesco e ariano e chi invece, in quanto suddito senza diritti ed ebreo, ebreo magari anche solo per un quarto dei suoi ascendenti, sarebbe stato allontanato dal contesto della popolazione ariana, privato dei diritti civili e destinato infine allo sterminio. (17, 20) Venne così perseguito l’obiettivo di rendere libero da Ebrei (judenfrei) dapprima il territorio tedesco e in seguito le nazioni europee conquistate nei primi tre anni di guerra. I più importanti campi destinati all’eliminazione fisica degli ebrei furono quelli di Treblinka, Sobibor e Belzec, dove venne attuato il piano denominato Aktion Reinhard, in onore dello stesso Reinhard Heydrich. Questi era morto nel giugno del 1942 a Praga, ucciso in un attentato ad opera di un commando di patrioti cecoslovacchi e fu deciso pertanto di chiamare con il suo nome il progetto di sterminio che oggi denominiamo Olocausto. Il lager più grande e tristemente celebre, che è rimasto come il più universalmente conosciuto del progetto criminale nazista, fu quello di Auschwitz-Birkenau.
Fu edificato nei pressi della cittadina polacca di Oświęcim, a circa sessanta chilometri ad ovest della città polacca di Cracovia. In questo campo, rievocato in film e in molte opere letterarie, persero la vita oltre un milione di persone. Auschwitz-Birkenau era composto da due grandi blocchi, Auschwitz appunto e Birkenau, a circa tre chilometri. Quest’ultimo sito fungeva da luogo di eliminazione immediata per le persone scelte dai medici delle SS all’arrivo dei treni dei deportati. Venivano soppressi senza indugi coloro i quali avessero meno di quattordici anni o fossero troppo anziani per lavorare. La prima selezione dei prigionieri veniva compiuta alla banchina ferroviaria, anche nel cuore della notte, unicamente da un medico. (3, 11)
I destinati alla morte immediata, di solito la fila di sinistra, venivano portati direttamente alle camere a gas con un corteo di camion guidati da una macchina con le insegne della croce rossa, su cui prendeva posto il medico di turno, che spesso indossava un immacolato camice bianco. Si trattava di un’accurata messinscena per tenere tranquille le persone, stanche per il lungo viaggio nei carri bestiame, prima che fossero uccise con il gas ed i loro corpi eliminati nei forni crematori che lavoravano a ciclo continuo. Il dottor Eduard Wirths (1909-1945), ginecologo e maggiore medico delle SS, comandante dei medici del campo di Auschwitz-Birkenau, aveva dato direttive precise che la selezione delle persone fosse effettuata esclusivamente dai medici. Questo fatto costituiva la manifestazione più evidente del presupposto ideologico che stava alla base dei campi di sterminio: gli Ebrei erano per il Nazismo una vera e propria malattia, un morbo che infettava da secoli l’umanità e il popolo tedesco. Compito del medico SS era dunque quello di estirpare questo male dal tessuto sociale tedesco ed europeo, allo stesso modo con cui si eliminavano dei germi da una ferita infetta o si detergeva una piaga purulenta.
Questa visione aberrante della medicina, che è totalmente in contrasto con il giuramento ippocratico e con i più elementari valori di qualsiasi etica che possa definirsi umana, era il punto di arrivo di un lungo percorso ideologico e operativo nato con le idee dell’eugenetica, proseguito con le sterilizzazioni di massa e giunto infine all’anticamera dei lager con l’istituzione del Programma T4 per l’eutanasia dei malati di mente e degli inabili al lavoro. (3)
Nei lager nazisti si assistette al più completo sovvertimento dei valori morali della medicina. In modo razionale e criminale, la medicina per la vita venne trasformata in una medicina per la morte, esercitata nei confronti di coloro che venivano reputati Üntermenschen (Uomini di dignità inferiore o sotto-uomini), un insieme composito di cui facevano parte gli Ebrei e anche altri gruppi etnici, come gli Zingari, che furono uccisi anch’essi a centinaia di migliaia. Anche altri esseri umani, la cui sola colpa era quella di essere dei “diversi”, come gli omosessuali in genere, furono destinati allo sterminio. Per gli ufficiali medici delle SS il servizio nei lager era equiparato ad un vero e proprio servizio al fronte, come coloro che combattevano in prima linea. Un compito indispensabile per la nazione, cui la loro professionalità di medici nazisti doveva portare il proprio contributo. Come si era potuti arrivare a questo stato di cose? Se utilizziamo un’analisi di tipo storico, prima ancora che di tipo psicopatologico, dobbiamo affermare che il modello sociale e ideologico della Germania nazista era il terreno fertile su cui non potevano fare altro che germogliare questi frutti di assassinio. Lo storico americano Daniel Goldhagen, nel suo libro Hitler’s Willing Executioners (I Volenterosi Carnefici di Hitler), ha sostenuto come l’appoggio dato dalla popolazione tedesca allo sterminio del popolo ebraico fosse qualcosa di assolutamente diffuso e compenetrato nel tessuto sociale. Una modalità di comportamento vissuta senza eccessivi rimorsi. (19)
Questa tesi ha provocato vasti consensi e anche dissensi accesi da parte di coloro che interpretavano il coinvolgimento di tutto il popolo tedesco nel massacro antisemita come una forzatura. Tuttavia i fenomeni storici non nascono mai dal nulla, affondano frequentemente la loro origine in lenti processi di preparazione. Nel campo dell’Antisemitismo la Germania aveva molto da rimproverarsi. Si trattava di un odio e di un pregiudizio che venivano da lontano. Ricordiamo che già al tempo della Prima Crociata, nel 1096-99, in molte città dell’area renana erano avvenuti massacri di Ebrei, accusati di essere i responsabili dell’uccisione di Gesù Cristo e per questo disprezzati dai Cristiani. La grande macchina della propaganda hitleriana, attraverso l’utilizzo di ogni risorsa mediatica disponibile, non fece altro che soffiare sulla brace dell’antisemitismo e diffondere un’ideologia popolare già di par suo molto diffusa. Se l’ambiente storico era favorevole a un intervento attivo contro gli Ebrei, che cosa però trasformò dei medici che avevano prestato il giuramento ippocratico in assassini e in sadici criminali e come poterono convivere in questi sanitari anni di preparazione professionale alla cura di altri esseri umani con la promozione e la direzione dello sterminio? (3, 20)
Lo psichiatra americano Robert Lifton, che ha studiato accuratamente le caratteristiche mediche dell’Olocausto, ha ipotizzato una forma di sdoppiamento di personalità che avrebbe interessato la quasi totalità dei medici che operavano nei lager. Lo sdoppiamento è un disturbo dissociativo presente in alcune patologie psichiatriche, per lo più di tipo schizofrenico. Nel caso dei medici nazisti si sarebbe trattato dell’accentuazione di un meccanismo di difesa che li avrebbe resi in grado di convivere con l’orrore quotidiano di cui erano precipitati e di cui erano corresponsabili. Si sarebbe così formato in questi medici un sé di Auschwitz, capace di accettare un ruolo attivo nell’eseguire i crimini che venivano loro richiesti come un intervento di igiene razziale. Una volta terminato il proprio tempo giornaliero di assassini, i medici dei lager sarebbero tornati ad essere “normali”, in modo da poter convivere con i delitti efferati che commettevano per essere coerenti con i dettami e il giuramento di fedeltà al corpo delle SS e all’ideologia nazista.
Lo sdoppiamento, sempre secondo Lifton, è un tipo di comportamento frequente durante la professione del medico. Viene utilizzato a volte inconsciamente come meccanismo di difesa e di esclusione del dolore e della morte dal contesto personale più intimo della vita privata del medico. Molti medici ricorderanno il timore e i pensieri angosciosi provocati dalla visione delle prime autopsie o dal dover assistere alla morte di tanti ammalati in una corsia di ospedale durante la loro attività professionale. In questi casi il medico tende a soggiacere ad una sorta di sdoppiamento temporaneo, di bassa intensità, per poter tenere lontano dalla sua sfera emotiva il dolore e la morte di altri esseri umani e rimanere lucidamente razionale. Deve infatti poter eseguire delle azioni utili al bene del paziente che sta assistendo anche in situazioni drammatiche e di dolore estremo. Nel caso dell’esercizio di una professione eticamente corretta, si tratta però di una forma di comportamento il più distaccato possibile per poter conservare una capacità di giudizio e di scelta nell’esclusivo interesse del paziente. Nel caso dei medici assassini di Auschwitz questo sdoppiamento serviva invece a non perdere il controllo su di sé e a poter continuare ad assolvere a un compito criminale, cui era estremamente difficile rifiutarsi una volta accettato quel contesto di morte. Lo sdoppiamento era un tipo di comportamento che colpiva anche i numerosi medici prigionieri, i quali ricevevano un trattamento di riguardo purché acconsentissero ad aiutare i medici delle SS nel loro orrendo lavoro. Anche molti medici ebrei internati ad Auschwitz fecero infatti ricorso a questa dissociazione interiore per sopportare l’orrore di cui erano vittime e contemporaneamente complici. (3)
Furono costretti a partecipare in modo attivo a procedure prive di connotazioni morali, come eseguire autopsie nei confronti di esseri umani sacrificati per deliranti esperimenti pseudo-scientifici o altre azioni mediche senza alcun significato terapeutico. Molti si ribellarono, per quanto era consentito dalla loro dignità, coraggio e istinto di sopravvivenza, ma lo sdoppiamento di difesa era un tipo di scissione molto diffuso. L’utilizzo di bevande alcoliche in grande quantità era un’altra caratteristica di molti medici in servizio ad Auschwitz e serviva, come è intuitivo, a ridurre la frustrazione psicologica di essere parte attiva negli eccidi. Una frustrazione che non impediva, tranne rarissimi casi, di prendere posto secondo veri e propri turni di guardia alla banchina ferroviaria di Birkenau per compiere le selezioni. Rapidamente, con un solo sguardo, i medici decidevano chi sarebbe stato ucciso di lì a poco nelle camere a gas e chi avrebbe avuto invece l’opportunità di restare in vita ancora qualche settimana, in terribili condizioni igieniche e di denutrizione.
La partecipazione di così tanti e anche culturalmente qualificati medici all’Olocausto e agli esperimenti immorali sugli esseri umani costituisce poi un interrogativo cui non è facile rispondere. I criminali che effettuarono sadiche sperimentazioni sui prigionieri non erano persone incolte. Erano laureati nelle più prestigiose università della Germania. Alcuni di loro erano docenti universitari, specialisti in ginecologia, anatomia patologica, igiene e malattie infettive, conosciuti per il loro lavoro anche all’estero. In una sorta di baratto faustiano, essi aderirono al male assoluto, entrando a far parte per lo più del Corpo delle SS, che aveva come caratteristica principale dei suoi membri la formulazione di un giuramento di fedeltà ad Adolf Hitler che sopravanzava ogni altro dovere, compreso quello verso il Giuramento di Ippocrate. Se il baratto faustiano può spiegare, almeno in parte, certe decisioni, dal momento che per molti di loro l’adesione al corpo delle SS significò una carriera brillante, sia in ambito accademico che nelle forze armate, l’arrivismo non può da solo far comprendere il libero corso dato al sadismo e alla crudeltà in uomini che avevano trascorso gran parte della loro vita a prepararsi a difendere la vita umana e la salute dei propri simili in una delle nazioni più culturalmente, socialmente ed economicamente avanzate dell’intera Europa. Può darsi che, in un certo qual modo, l’adesione al nazismo abbia scoperchiato per alcuni la botola psichica che dava accesso alle peggiori istintualità sadiche. (3)
Tuttavia la freddezza e il distacco con cui si procedeva all’invio dei prescelti alle camere a gas, oppure si collezionavano scheletri umani di soggetti ebrei o ritenuti bolscevichi, come fece il professor August Hirt (1898-1945) dell’Università di Strasburgo, o come agiva il tristemente conosciuto Josef Mengele (1911-1979), che selezionava e uccideva coppie di bambini e adulti gemelli per poter far loro in seguito l’autopsia in contemporanea, dopo inutili sperimentazioni, assumono la veste di una domanda a cui temo sarà difficile per sempre dare una risposta con i soli strumenti della ragione. Eppure la logica di eutanasia e di igiene razziale propugnata dai nazisti si faceva vanto di una sorta di razionalità delirante. Si trattava, come ha proposto Lifton, di una forma di paranoia di massa, con una sua lucidità e un suo delirio logico e ben strutturati. Aggiungerei che qualsiasi menzogna, se ben propagandata e sostenuta, può riscuotere successo e credibilità in una parte della popolazione. Questa possibilità è particolarmente suggestiva nel caso dell’Antisemitismo e della sua diffusione. Il fenomeno prende il nome di Profezia auto-creatrice o Teorema della Situazione di Thomas, dal nome del sociologo americano William Thomas (1863-1947) che la descrisse per primo come componente essenziale delle discriminazioni sociali e dei pregiudizi:
“… se gli uomini definiscono reali le situazioni
esse saranno reali nelle loro conseguenze …”
da William Thomas, 1928 (21)
Nella Germania nazista si venne a creare un insieme sinergico di una classe dirigente spinta da idee deliranti e criminali condivise, assecondata da un meccanismo di propaganda e di consenso capillare. Un insieme che utilizzò per la propria affermazione la tradizione culturale più viscerale del popolo tedesco, come il mito dello Spazio vitale ad Est, l’odio verso l’ingerenza ebraica e la sua presunta diversità razziale, le recriminazioni per l’ingiusta Pace di Versailles del 1918, che aveva posto fine alla Prima Guerra Mondiale. (15) L’incontro di alcune personalità patologiche, come Hitler, Goebbels e Himmler prima di tutte, finì per spingere coscientemente verso l’orrore della distruzione milioni di esseri umani, con la convinzione profonda di recitare un ruolo storico giustificabile e inevitabile. Negli Anni Trenta lo stesso popolo tedesco venne preparato progressivamente a interpretare questa parte di attore nella rigenerazione universale della nazione germanica. Venne adottata la divisa per le grandi masse e promossa l’identità di gruppo. I simboli più funerei della morte e della distruzione divennero familiari a milioni di tedeschi, sottoposti a un lavaggio del cervello capillare e a un indottrinamento cui non si poteva non aderire, pena l’allontanamento dai posti di lavoro più ambiti, se non addirittura l’internamento nei primi campi di concentramento per dissidenti politici e reietti sociali. (15, 18)
Il 9 dicembre del 1945 si aprì a Norimberga il processo a ventitré criminali nazisti, di cui venti medici, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’Umanità. Si trattò di un processo passato alla storia come il “Processo dei Medici”. Quelli che sedevano in tribunale erano solo una piccola parte dei sanitari che avevano aderito al Nazismo e si erano adoperati sia nel servizio presso i lager, che nell’esecuzione di esperimenti pseudo-scientifici aberranti. (11)
Costituivano un campione rappresentativo di quei medici che aveva ideato e promosso la sperimentazione sui deportati e avevano causato la morte, con atroci sofferenze, di migliaia di esseri umani utilizzati come cavie. Uomini e donne come loro, che erano stati infettati con i bacilli del tifo, della tubercolosi e della gangrena. Mutilati, sottoposti a sterilizzazione sperimentale con sostanze chimiche e radiazioni e infine lasciati morire nella sofferenza ed eliminati fisicamente nei crematori. Sette di questi criminali furono condannati a morte per impiccagione da parte di un tribunale composto da sei giudici americani. Otto furono assolti ed i restanti condannati a pene detentive che non impedirono loro di essere scarcerati dopo pochi anni e di riprendere spesso ad esercitare la medicina. I medici nazisti scelsero la strada dell’adesione alle idee di morte del regime, prima ancora che la fedeltà ai valori universali della loro professione. La loro vicenda deve essere conosciuta per comprendere quanto sia necessario vigilare sulla natura umana e sulla possibilità che essa possa cedere alla tentazione del male attraverso una scelta consapevole. Come ci si può difendere da questa possibilità? Conoscere l’orrore dei campi di sterminio, se non può essere una garanzia assoluta per non ripeterlo, può tuttavia rendere una testimonianza efficace per le coscienze. Può evitare di illudersi su di una presunta bontà naturale dell’animo umano e, nello stesso tempo, educare le generazioni che verranno a vigilare, a non abbassare mai la guardia nei confronti del razzismo e della discriminazione. (22, 23)
Leggiamo in proposito una riflessione del filosofo ebreo Hans Jonas (1903-1993), che combatté nella Seconda Guerra Mondiale nelle fila delle Truppe Alleate:
“… Per tutelare “l’integrità dell’uomo”, si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per proteggerci dagli sbandamenti del nostro potere (ad esempio dagli esperimenti sulla natura umana). Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo era ed è, dall’orrore dinanzi a ciò che egli potrebbe diventare, dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro. Soltanto il rispetto, rivelandoci “qualcosa di sacro”, cioè d’inviolabile in qualsiasi circostanza (il che risulta percepibile persino senza religione positiva), ci preserverà anche dal profanare il presente in vista del futuro, dal voler comprare quest’ultimo al prezzo del primo. La speranza, altrettanto poco quanto la paura, può indurci a rinviare a una fase ulteriore il fine autentico – la crescita dell’uomo in un’umanità non atrofizzata – compromettendo nel frattempo tale fine con dei mezzi che non rispettano l’uomo della propria epoca. Un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi …”
da Hans Jonas, Il principio di responsabilità, Torino, 1990 (22)
Studiando un fenomeno come il Nazismo, quello che inquieta maggiormente è il riscontro di un’estrema povertà di voci critiche, di tentativi di opposizione a questo progetto totalitario e criminale. Tuttavia qualcuno che si oppose ci fu e pagò per lo più con la vita il suo tentativo di manifestare pacificamente il proprio dissenso, come i ragazzi della Rosa Bianca dei fratelli Hans e Sophie Scholl, ghigliottinati insieme ad altri aderenti all’associazione nel 1943 per aver effettuato un colpevole volantinaggio di dissenso dal regime. Oppure il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), coraggioso nel manifestare la sua opposizione alla dittatura, impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg a pochi giorni dal termine della guerra. Tuttavia i tedeschi che si opposero concretamente al nazismo furono pochi, drammaticamente pochi, anche se ne restano testimonianze di elevato valore morale, come le lettere dalla prigionia di Bonhoeffer:
“…“Cari genitori,
[…] è in tempi come questi che si dimostra veramente che cosa significhi possedere un passato e una eredità interiore che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi. La consapevolezza di essere sorretti da una tradizione spirituale che si estende nei secoli dà una salda sensazione di sicurezza davanti a qualsiasi transitoria difficoltà. Credo che chi sa di possedere siffatte riserve di forza non ha bisogno di vergognarsi nemmeno dei sentimenti più teneri, che peraltro a mio giudizio sono propri degli uomini migliori e più nobili, quando siano suscitati dal ricordo di un passato bello e ricco. Chi si tiene saldo a quei valori che mai nessun uomo può carpirgli non sarà sconfitto …”
da Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, C. Balsamo (Milano), 1989. (24)
Ora sappiamo che certi comportamenti di un orrore inimmaginabile sono possibili anche in persone istruite ed educate con i migliori strumenti della civiltà moderna.
Lo sappiamo e non ci sarà più lecito dimenticarlo.
Bibliografia
1. Arendt H., Le origini del totalitarismo, Milano, 1967.
2. Arendt H., La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1964.
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24. Bonhoeffer D., Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, (Milano), 1989.
Federico E. Perozziello (2009-2017)
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