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Karl Jaspers, medico e filosofo
di Federico E. Perozziello
Medico, psichiatra e filosofo, fondatore secondo molti studiosi della corrente filosofica e di pensiero che prende il nome di Esistenzialismo moderno, la figura di Jaspers è stata spesso più ammirata che studiata. Eppure la sua presenza discreta e dignitosa segna uno dei punti più alti della riflessione sul senso della vita e del destino dell’Uomo nel XX secolo. Maestro di Hannah Arendt (1,2, 3) e contemporaneo del discusso Martin Heidegger (4, 5), Jaspers fu uno dei pochi intellettuali tedeschi che seppero opporsi al Nazismo senza compromessi, ben consapevole del destino cui andava incontro. Terminata la Seconda Guerra Mondiale, l’indagine filosofica di Jaspers contribuì in modo determinante a fare luce sul sentimento di colpa che pervadeva la società tedesca per aver aderito, nella maggioranza delle sue componenti, all’ideologia nazista. La sua riflessione sul senso dell’Essere e sulla presenza dell’Uomo nella Storia continua a rivestire un ruolo di grande attualità e di rinnovata attenzione alla presenza del Trascendente nella realtà e nell’esistenza umana in particolare.
“…«Scelta» è l'espressione che indica la coscienza, che io ho, che decidendomi non mi limito ad agire nel mondo, ma forgio la mia propria essenza nella sua continuità storica. Io non so soltanto che sono qui e sono così e quindi agisco in questo modo, ma so che nell'agire e nel decidere sono nel contempo l'origine del mio agire e della mia essenza. Decidendomi sperimento la libertà come decisione non solo su qualche cosa, ma su me stesso, libertà in cui non è più possibile una distinzione fra scelta ed io, perché io stesso sono la libertà di questa scelta. Una mera scelta è quella fra determinazioni oggettive, ma la libertà è la scelta di me stesso. Non posso certamente creare una contrapposizione e quindi scegliere fra me stesso ed un non-essere-me-stesso, quasi che la libertà fosse uno strumento nelle mie mani. Invece: in quanto scelgo, sono; se non sono, non scelgo…”
da Karl Jaspers, Filosofia, 1932 (6)
Appare importante non dimenticare chi ha vissuto il periodo nazista con dignità, cercando di non abbandonare i presupposti dell’umanità e della ragione. Karl Jaspers è stata una di queste persone che in Germania, poche in verità, ebbero il coraggio di opporsi chiaramente all’ideologia ed alla sopraffazione nazista. Nato nel 1883 ad Oldenburg, in Bassa Sassonia, una cittadina nel cuore della Germania ed a poche decine di chilometri da Brema, fu influenzato all’inizio dei suoi studi dal padre Karl Wilhelm, un giurista di fama. Il giovane Karl si iscrisse così a legge, per passare poi, dopo solo qualche mese, a medicina. Laureatosi nel 1908, iniziò a frequentare l’Ospedale psichiatrico di Heidelberg, la città dove aveva studiato e dove rimarrà a vivere per la maggior parte della sua vita. Ad Heidelberg aveva lavorato il celebre psichiatra Emil Kraepelin (1856-1926), autore di importanti studi sulle psicosi ed in particolare sulla schizofrenia. Kraepelin aveva affrontato in modo sistematico e razionale lo studio delle malattie mentali, raccogliendo i sintomi presentati da un gran numero di pazienti per gruppi omogenei di casi clinici, gruppi che potessero indirizzare ad una diagnosi condivisa ed inoppugnabile. Riteneva che una volta individuati con certezza una serie di sintomi propri di ogni malattia mentale si potesse poi intervenire con successo nel ricercare in modo sperimentale e più sicuro le cause che avevano generato la patologia del pensiero allo stesso modo con cui le altre specialità mediche investigavano i rimedi e le cure delle malattie organiche di loro pertinenza. (7)
Jaspers si mostrò subito critico nei confronti di questo approccio al problema della malattia mentale di natura positivistica e di tipo sperimentale. Rivendicando una modalità di studio della psichiatria di carattere più antropologico, che tenesse conto della complessità e dell’originalità della persona, in uno dei sui libri più celebri affermò:
“… il fatto che le malattie mentali siano fondamentalmente umane ci obbliga a non vederle come un fenomeno naturale generale, ma come un fenomeno specificamente umano…"
da Karl Jaspers, Psicopatologia Generale, Roma, 1965 (8)
L’attenzione verso il malato psichiatrico di Jaspers fu dunque un interesse rivolto prima di tutto alla sua unicità, ad una capacità di osservazione complessiva dell’individuo malato che andasse al di là della catalogazione dei suoi sintomi. In Jaspers si era manifestato un mutamento nel metodo di osservazione del malato psichiatrico. Il sintomo diventava un segno che indicava un diverso modo di elaborare l’esperienza del vissuto da parte del paziente. Il principio dell’anomalia psichica andava ricercato all’interno dell’individuo e questa particolarità non diventava una semplice disfunzione organica, ma segnalava e connotava un certo modo di quella persona di essere nel mondo e di progettare una sua originale esistenza diversa da quella dei così detti “normali”. Occorreva pertanto rivedere il fenomeno costituito dalla malattia psichiatrica dal punto di vista del malato e non solo da quello di chi lo stava indagando, uno psichiatra e terapeuta osservatore non neutrale. Si trattava di partecipare al fenomeno manifestato in modo che esso rivelasse la propria natura a chi lo potesse comprendere attraverso una metodologia di tipo fenomenologico, secondo la lezione del filosofo Edmund Husserl (1859-1938). (9, 10)
Husserl aveva elaborato nei primi anni del secolo XX una sua particolare ricerca filosofica, che aveva esposto nel saggio Ricerche Logiche (Logische Untersuchungen) del 1900-1901.
Il filosofo austriaco-moravo aveva distinto tra l’atto mentale che portava alla conoscenza, che aveva chiamato noesis ed il fenomeno da cui il pensiero era stato colpito e che quest’ultimo cercava di descrivere, che aveva denominato noema. Nello sforzo di arrivare a comprendere l’essenza delle cose che popolavano la realtà, Husserl aveva proposto l’attenersi ad una sospensione del giudizio, che venne da lui chiamata epoché. In questo modo l’uomo sarebbe giunto ad avere un’idea della realtà la più vicina possibile all’essenza del reale, investigando dentro di sé la raffigurazione di questa che egli si sarebbe potuto costruire. Il mondo diventava quello che l’individuo era in grado di rappresentarsi, indipendentemente da ciò che abitava il circondario della persona stessa. Veniva portata all’esasperazione l’idea cartesiana del cogito ergo sum e nello stesso tempo si intuiva come delle idee deliranti o fuori dal coro, tipiche del malato psichico, potessero acquistare in questa visione una loro dignità di ruolo e di comprensione. (9, 10)
Un’idea portante di Jaspers era costituita dal superamento dell’antico dualismo tra anima e corpo, che poteva ridurre pericolosamente ogni espressione della natura umana a modificazioni organiche del Sistema Nervoso Centrale, sia in senso fisiologico che patologico. La contrapposizione tra psiche e corpo assumeva i contorni di una mera astrazione ed un’astrazione che poteva ostacolare la comprensione della persona invece di facilitarla. Una persona ed un essere umano che andavano prima di ogni cosa considerati come un tutt’uno armonico. Quest’ultima affermazione di Jaspers lo portò ad una critica radicale della metodologia dell’indagine scientifica. Se nella ricerca sperimentale si partiva da un piano di oggettivazione del reale attraverso delle ipotesi di natura matematica, la conoscenza scientifica veniva ridotta ad un mero dato oggettivo. Qualcosa che poteva essere studiata dall’esterno, ma che rischiava di essere mortificata da quella che risultava essere una semplificazione matematica. La natura dell’uomo non era limitata alla sola comprensione del corpo e la sua essenza risiedeva oltre questa dimensione, al di là di ogni possibile ed afferrabile oggettivazione. La conclusione provvisoria di questo ragionamento affermava che non si poteva comprendere dall’esterno l’essere dell’Uomo. Occorreva tentare di comprenderlo anche dall’interno, prendendo atto delle sue possibilità trascendenti. (8)
Si trattava di idee che troveranno un loro ulteriore sviluppo ed una enfatizzazione nelle teorie dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966), contemporaneo di Jaspers ed amico e corrispondente di Sigmund Freud. (11, 12)
Binswanger pensava alla malattia mentale come ad uno dei modi possibili di porsi dell'essere umano nei confronti del mondo che lo circondava, una disposizione soggettiva dell’individuo nei confronti della realtà e della vita di relazione con altre persone. Uno degli studi più interessanti di Binswanger venne rivolto all’esame della diversa consapevolezza del senso del tempo che era presente nei soggetti deliranti rispetto a quelli non affetti da patologie psicotiche. La concezione stessa di terapia psichiatrica risultava mutata nell’insegnamento del medico svizzero. Il terapeuta diventava colui che interagiva con l’intimità dell’esistenza dell’ammalato e della persona che aveva di fronte.
Secondo Binswanger, le dottrine psichiatriche di tipo organicistico e sperimentali, che facevano riferimento ad un modello medico-biologico puro di lettura della malattia mentale, perdevano di vista il senso più profondo del lavoro terapeutico e trascuravano il valore della presenza e della comunicazione umana. Furono questi presupposti che portarono lo psichiatra svizzero ad esercitare la professione in una clinica psichiatrica molto particolare, in cui viveva a contatto diretto e continuo con i propri pazienti ed in cui poteva osservare direttamente la loro vita. Si trattava del Bellevue Sanatorium di Kreuzlingen, la città natale di Binswanger sul lago di Costanza, che egli diresse per lunghi anni fino al 1956. Questo riferimento diretto al senso dell’essere ed alla specificità della natura umana, ci porta a raccontare la parte della vita e del pensiero di Jaspers più propriamente collegate alla speculazione filosofica. (13)
Nel 1913, presso l’Università di Heidelberg, Jaspers aveva iniziato un percorso di studio e di insegnamento della Psicologia. Nel 1919, divenuto ormai docente di Filosofia, del cui Dipartimento la Psicologia faceva a quel tempo parte, pubblicò un saggio dal titolo di Psychologie der Weltanschauungen (Psicologia delle visioni del mondo). (14) In questo libro Jaspers si occupava della problematica relativa ad una delle grandi questioni filosofiche di ogni tempo. Anzi, forse dell’unica grande domanda che era alla base di tutte le successive che gli esseri umani si erano posti: che cosa era l’Essere e quali erano i suoi rapporti con gli Enti?
Il concetto di Essere aveva fatto la sua comparsa nel pensiero con Parmenide di Elea (515-450 a.C.), autore della celebre affermazione:
“… È necessario il dire e il pensare che l’Essere sia. Infatti l’Essere è,
il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare …”
da Parmedide di Elea, Sulla Natura, Frammenti
Il pensiero di Parmenide fu il primo tentativo di trovare un senso al divenire del mondo, alla mutevolezza continua delle cose e della vita umana. Nel linguaggio comune essere ed esistenza sono spesso considerati come equivalenti. Il filosofo greco cercò per primo di uscire da questo malinteso logico, per costruire un contenitore del senso delle cose tutte, un quid che permettesse di comprendere il significato dell’esistenza del mondo e del suo continuo divenire: l’Essere appunto. Se vogliamo immaginare la natura più autentica dell’Essere parmenideo, dobbiamo pensarlo come un principio trascendente ed immutabile, che permea di sè tutta la realtà, senza esserne a sua volta condizionato. La dialettica tra gli Enti, intesi come le entità che popolano il mondo storico e percepibile, gli uomini e la natura in tutte le sue componenti, quali rocce, alberi od animali e l’Essere vero e proprio, era stata nei secoli sottoposta ad uno sviluppo e ad una riflessione continui. Jaspers se ne servì per portare la sua critica ai fondamenti della conoscenza filosofica e di quella scientifica. Per prima cosa definì i rispettivi campi di influenza delle due parti del sapere che stava esaminando: la Filosofia e la Scienza:
“… Prima di rifarci alla filosofia dobbiamo determinare obiettivamente il rapporto per nulla equivoco fra la filosofia attuale e la scienza. Anzitutto sono divenuti chiari i limiti della scienza; essi possono essere così brevemente caratterizzati: a) la conoscenza scientifica delle cose non è conoscenza dell’ “Essere”; la conoscenza scientifica è particolare, diretta su oggetti determinati, non è diretta sulla realtà stessa. Perciò la scienza rappresenta dal punto di vista filosofico, proprio per mezzo del sapere, il sapere più radicale del “non sapere”, cioè il non sapere ciò che è l’Essere stesso; b) la conoscenza scientifica non è in grado di dare nessuna direzione per la vita. Non stabilisce valori validi; la scienza come scienza non può guidare la vita; per la sua chiarezza e decisione, essa rimanda a un altro fondamento della nostra vita; c) la scienza non può dare nessuna risposta alla domanda riguardante il suo vero e proprio senso: il fatto che la scienza esista è basato su impulsi che non possono essere neppure essi stessi dimostrati scientificamente come veri e come tali da dover esistere …”
da K. Jaspers, La filosofia dell’esistenza, Milano, 1967 (15)
In questo pensiero del filosofo tedesco è racchiuso uno dei suoi messaggi più importanti. La Scienza in quanto tale appare incapace di raggiungere una comprensione accettabile ed armonica della realtà in cui opera. Essa rivolge la propria attenzione agli Enti, a tutto ciò che è presente, vive e si agita sulla superficie di questo pianeta, come negli spazi siderali, ma in nessun modo la Scienza riesce ad afferrare ed a comprendere la natura dell’Essere. Questo tutto permea ed avviluppa, come scrive lo stesso Jaspers.
Anzi, continuando a studiare per secoli la natura degli Enti, la Scienza si è dimenticata della loro differenza con l’Essere ed ha finito per confondere i due piani della ricerca. Questo fatto costituisce la principale “colpa” della visione positivistica della Scienza moderna, responsabile di aver disgiunto la ricerca del sapere da ogni guida morale al suo utilizzo. Nell’ansia di trovare dei fattori comuni che siano condizione unificante per gli Enti, la scienza positiva dimentica l’unicità dell’individuo e diventa incapace sia di comprenderlo in modo profondo, che di scoprire la trascendenza dell’Essere che compenetra ogni cosa presente nel mondo ed ogni oggetto dello studio e della sperimentazione. (5, 13)
Karl Jaspers è stato considerato il principale precursore della corrente filosofica del Novecento che prende il nome di Esistenzialismo. L’Esistenzialismo è una modalità di pensiero filosofico che viene da lontano. Convenzionalmente si ipotizza una data di inizio nel secolo XIX, con le figure di filosofi e di scrittori come Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij e Kafka. In realtà, se andiamo indietro nel tempo, tracce di una visione esistenziale del vivere si trovano sia nelle opere di Blaise Pascal che in quelle di Sant’Agostino. Se vogliamo darne una definizione semplice, dobbiamo parlare dell’Esistenzialismo come di una corrente di pensiero costituita da molte esperienze e riflessioni filosofiche individuali di uomini e di filosofi che si interrogano sul senso ultimo dell’esistenza. Persone che cercano, al di là dello sgomento iniziale sulla gratuità e sulla mancanza di determinanti razionali dell’esistere, un principio di comportamento ed una verità in cui credere che li sollevi dall’angoscia di doversi misurare con una quotidiana insoddisfazione. Una risposta che permetta loro di affrontare e sostenere gli interrogativi sul perché dell’esistenza in cui si sono trovati a vivere.
Quando era ancora un giovane professore di psicologia, Jaspers fu anticipatore in alcuni suoi scritti del dibattito filosofico sull’Esistenzialismo. L’uscita del suo libro Psicologia delle visioni del mondo del 1919 può essere considerata la prima espressione della corrente esistenzialista tedesca, molti anni prima del celebre libro di Martin Heidegger (1889-1975) Essere e Tempo. (16) Uscito nel 1927, Essere e Tempo costituì il punto di partenza di un rinnovato dibattito sulle tematiche esistenziali. Considerato da molti come il più grande filosofo del Novecento, la figura di Heidegger appare ancor oggi controversa. (4, 5) Ha pesato soprattutto su di lui la mancanza di una sua netta presa di posizione nei confronti del Nazismo, verso il quale mostrò invece un atteggiamento di non aperta critica, che gli consentì di continuare ad insegnare indisturbato per anni, mentre molti importanti filosofi di quel tempo, a partire dal suo maestro Husserl, venivano messi a tacere o costretti ad abbandonare la Germania perché ebrei.
Un destino simile fu riservato anche ad Jaspers. La moglie di Jaspers, Gertrud Mayer, era ebrea. Il loro matrimonio risaliva al 1910, ma con l’avvento al potere di Hitler nel gennaio del 1933 e le leggi di discriminazione razziale successive, il fatto di aver sposato un’ebrea metteva Jaspers nella condizione di essere considerato un oppositore del regime o almeno sospettabile di esserlo. Nel 1937 gli venne pertanto revocata la cattedra universitaria ad Heidelberg e da allora visse ritirato, come un prigioniero nella sua stessa casa. Non volle fuggire all’estero, sia per le precarie condizioni di salute, che per una certa pigrizia e forse fatalità del carattere. Nel 1938 gli fu intimato anche di smettere di pubblicare i suoi lavori e fu, in un certo senso, condannato al silenzio ed alla morte civile. Insieme alla moglie attese per anni che le cose cambiassero. Molti amici di un tempo lo avevano abbandonato ed i due coniugi temevano di essere deportati in ogni momento. Pare addirittura che Jaspers si fosse procurato del cianuro da assumere insieme alla consorte per evitare di essere internato in un lager e che lo tenesse sempre a portata di mano. Gli anni della guerra trascorsero comunque fino alla liberazione di Heidelberg da parte degli Alleati, il 30 marzo del 1945.
Jaspers riacquistò la libertà, in un paese che era diventato un immenso campo di rovine materiali e morali. E’ un dato di fatto sottolineare come nella sua esistenza questo filosofo si sia dovuta aspramente confrontare con i presupposti teorici del proprio pensiero. Pensiamo ad esempio alle idee di Jaspers sul significato della trascendenza dell’esistere, sulla sensazione di disagio e di malessere che l’uomo prova quando diventa pienamente consapevole dei limiti della propria umana condizione. Uno stato di crudele evidenza che può sperimentare solo attraversando un frangente di naufragio, come avviane nelle grandi prove della vita: la malattia, la morte di una persona cara, un disastro economico e professionale.
Scrisse il filosofo:
“… da ultimo vi è il naufragio; lo dimostra l’orientazione nel mondo che inesorabilmente si attiene ai fatti. [...] Per l’orientazione nel mondo, il mondo in quanto esserci naufraga, perché in sé e da sé non si lascia comprendere [...] Se dunque il naufragio, a cui io mi abbandono a piacere, è solo il nulla vuoto, allora il naufragio che mi coglie, quando ho fatto veramente di tutto per evitarlo, bisogna che non sia solo naufragio. Allo stesso modo io sperimento l’essere, quando nella sfera dell’esserci ho fatto quello che potevo per difendermi; e analogamente, quando, come esistenza, rispondo completamente di me e da me tutto esigo, ma non posso sperimentare l’essere quando, nella coscienza della mia nullità di creatura di fronte alla Trascendenza, mi abbandono alla caducità propria dell’essere creatura …”
da Karl Jaspers, Metafisica, Milano, 2003 (17)
L’essere umano è condannato ad apprezzare l’esistenza ed il suo valore trascendente solo in situazioni limite in cui il suo io, nell’imminenza di un pericolo o di un dolore vissuto, apprezza il senso del vivere che altrimenti gli sfuggirebbe e gli sfuggirà comunque. Il termine naufragio è quello che Jaspers utilizza per definire in modo comprensibile il significato ultimo dell'esistenza umana. Si tratta di una metafora filosofica che descrive il divenire continuo della realtà, opposto al desiderio innato dell’uomo di avere dei punti fermi di riferimento, in modo da far cessare la disperazione di essere in balia dell’instabilità che popola il mondo. Un mondo che egli vede e percepisce come un fenomeno complesso, una serie di accidenti di cui gli sfugge la motivazione più profonda. Nonostante gli esseri umani si sforzino in ogni modo di afferrarsi ad un appiglio di immutabilità, sono condannati a convivere con la precarietà della loro vita. Attraversando nel tempo le loro situazioni limite, costituite dal dolore, dal confronto con la malattia e la morte, le persone giungono a percepire il significato del trascendente, che permea ogni Ente e tuttavia non si fa conoscere.
La Scienza non può svelarlo o spiegarlo, perché è a sua volta ripiegata ideologicamente nel proprio rassicurante determinismo, uno strumento limitato con cui al massimo potrà rivelare alcune caratteristiche degli Enti, illustrarne magari le leggi che li governano, ma non certo afferrare l’altro da sé che li giustifica e ne conferisce la ragione. Così all’uomo non resta che la rassegnazione ed il silenzio, in cui percepisce la presenza di un Trascendente che illumina un orizzonte di conoscenza cui egli non potrà che tendere, senza mai arrivare compiutamente ad osservarlo. Solo l’accettazione di questa verità permetterà all’uomo di accettare il divenire e vivere la conoscenza scientifica per quello che essa realmente rappresenta: uno strumento limitato per indagare il mondo percepibile, nulla di più. (13)
Tuttavia la rassegnazione è una condizione a cui non si può sottostare a lungo. La filosofia fornisce degli strumenti logici e teoretici per cercare di comprendere il senso del continuo divenire, in uno sforzo destinato alla sconfitta ed al naufragio, ma non privo di una propria dignità e nobiltà. Nella pace relativa della rassegnazione l’essere umano vive in silenzio una condizione di limitatezza, cercando di afferrare il senso dell’esserci, nel mutare continuo del Mondo:
"…Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un'indefettibile fiducia in esso…"
da Karl Jaspers, Filosofia, libro II, cap.1, 1932 (6)
La filosofia fornirà dunque la comprensione del divenire continuo ed in questa visione l’animo umano troverà, se non la salvezza, almeno la possibilità di comprendere parzialmente la natura dell’Essere e della sua assoluta ed inafferrabile trascendenza. Una comprensione individuale, diversa per ogni uomo, ma necessaria per accettare il proprio ruolo nel contesto degli Enti e nel fluire infinito dell’Essere inconoscibile ed incomprensibile. (15)
La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò per Jaspers il ritorno all’insegnamento. Le cose erano cambiate e la realtà della Germania non poteva prescindere da quello che era successo durante la follia criminale del Nazismo. Nel suo saggio La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Jaspers raccolse una serie di lezioni da lui tenute nella Heidelberg post bellica degli anni 1945-46. (20)
Il popolo tedesco era venuto ormai a conoscenza, senza ombra di dubbio e possibilità di disconoscimento, dell’enormità dell’Olocausto. Come interpretare questa colpa, come farsi ragione della responsabilità storica che sembrava gravare su tutta la nazione? Il filosofo e medico tedesco diede una sua interpretazione particolare dell’elemento di colpa che gravava come un’ombra su tutto il paese. (18, 19)
Secondo Jaspers era possibile distinguere quattro diverse tipologie di colpa: la colpa criminale, la morale, la politica ed infine la colpa metafisica. La colpa di tipo criminale e morale erano da ascriversi solo alla responsabilità del singolo. Veniva in questo modo rigettata l’ambiguità nazista di attribuire al popolo tedesco nel suo complesso, il Volk, una qualche forma di personificazione astratta che gli permettesse di intervenire nella storia, sterminando popolazioni etnicamente diverse in nome delle proprie ragioni o presunte superiorità razziali. Della colpa politica i Tedeschi erano invece direttamente responsabili e con diverse gradazioni. Vi erano stati coloro che avevano sostenuto attivamente e permesso l’ascesa del regime nazista e coloro che avevano tollerato in silenzio quel procedere criminale, per giungere infine ai tedeschi che si erano astenuti dal prendere una posizione nettamente contraria alla dittatura. Il popolo perdeva così la condizione originaria di innocenza collettiva e diventava un soggetto di decisione, un protagonista che sceglieva la propria forma di governo e si condannava volontariamente e colpevolmente all'oppressione.
Traspare da questa interpretazione di Jaspers la sua adesione alle profetiche teorie politiche di Max Weber (1864-1920), un intellettuale, economista e sociologo tanto ammirato in gioventù da Jaspers da avergli dedicato una monografia. (22) Weber aveva profeticamente delineato le caratteristiche di una possibile legittimazione carismatica del potere. Aveva prefigurato l’ascesa di leader come Hitler e Mussolini, che erano arrivati al governo in seguito ad elezioni democratiche e quindi per una libera scelta degli elettori, che avevano deciso autonomamente da chi volevano essere governati.
Un popolo che si era affidato al suo Capo, al Führer, in cui aveva riconosciuto doti fuori dal comune, qualità che ne avevano legittimato l’investitura. Il popolo tedesco era quindi responsabile direttamente del Nazismo, la forma di governo che si era attribuita liberamente con le elezioni del gennaio del 1933. Anche chi non era andato a votare in quell’occasione, astenendosi, recava adesso la responsabilità di aver favorito la presa del potere da parte di Adolf Hitler. (21, 23)
Esisteva infine una forma di colpa di tipo più squisitamente metafisico. Il semplice far parte di una comunità umana che aveva praticato lo sterminio faceva sì che i sopravvissuti si riconoscessero, in un diverso livello di coscienza, come colpevoli di essere ancora vivi e membri di un popolo che aveva compiuto il più orrendo dei crimini. Questa condizione rappresentava la forma più sottile di punizione per gli orrori commessi, un qualcosa che non poteva essere allontanato dalle coscienze tanto facilmente e con l’uso della ragione. Come avrebbe raccontato Primo Levi (1919-1987), internato e sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau, la follia lucida dei lager e dei campi di sterminio avrebbe pesato a lungo sui contorni del sentire e della memoria umana. Avrebbe aleggiato per sempre come un’ombra, capace di offuscare anche i momenti di maggiore trionfo scientifico dell’Uomo, poiché l’orrore era stato coscientemente perseguito e raggiunto da molti e questo fatto non sarebbe mai stato possibile dimenticarlo.
Leggiamo un passo tratto da uno dei libri di Levi, che ci riporta con assoluta fedeltà a quei giorni ed a quei crimini:
“…Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi. La notizia è giunta, come sempre, circondata da un alone di particolari contraddittori e sospetti: stamattina stessa c'è stata selezione in infermeria; la percentuale è stata del sette per cento del totale, del trenta, del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati. Saranno esclusi gli specialisti. Saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io…”
da Primo Levi, Se questo è un Uomo, Torino 1981 (24)
Il Popolo Tedesco aveva sbagliato, ma non era cattivo per il semplice fatto di esistere. Altri, in futuro, avrebbero potuto commettere crimini simili. Il processo di Norimberga, che aveva condannato a morte alcuni dei più importanti gerarchi nazisti catturati, aveva visto sedere tra i propri giudici persone provenienti dalla Russia staliniana, dominata da un regime brutale e che si era macchiato anch’esso di crimini e colpe gravi. La ferocia dei totalitarismi era infatti fondata, secondo Jaspers, sulla loro inconsistenza culturale e sulla loro incapacità a comprendere il mondo se non attraverso la forza e la sopraffazione nei confronti dei dissidenti, di coloro che non volevano omologarsi alle direttive del potere. In una tensione mai abbandonata verso la speranza, Jaspers concluse il proprio saggio sulla Colpa con una citazione dalla Bibbia. Andò così a cogliere di nuovo ed a ricordare ai suoi lettori, il senso antico del porsi dell’Uomo nei confronti della Storia e del suo confrontarsi con Dio. Lo fece citando le parole del profeta Geremia sulla distruzione di Gerusalemme:
“… Così parla Jahweh: Invero quello che io ho costruito lo abbatto al suolo e quello che io ho piantato, lo sradico; e tu chiedi per te alcunché di grandioso? Non lo chiedere …"
Geremia (45, 4-5)
La conclusione di Jaspers affermava come Dio ponesse dei limiti all’orgoglio umano e ne costituisse l’unico punto fermo dell'esistenza. L’uomo, nella visione jaspersiana, era un essere nudo e disarmato, privato dell'orgoglio di poter modificare il mondo attraverso la guerra e la violenza, ma anche disilluso sul potere di conoscenza della Scienza e dei demoni che aveva evocato. Tuttavia, anche se ogni illusione di dominio sulla storia e di grandezza illimitata era svanita e l’anima umana doveva ora confrontarsi, tra le macerie dei bombardamenti, con la sua natura e le proprie colpe, Dio rimaneva come una pietra di paragone all’indefinibile instabilità in cui lo spirito umano si dibatteva. Era una condizione che doveva e poteva bastare per vivere e scegliere una forma di governo democratico, sempre imperfetto, ma l’unico giusto e solidale possibile. Questo riconoscimento di Dio poteva cogliere, per un attimo soltanto, l’eternità immutabile dell’Essere, prima che questi scomparisse di nuovo quando si tentava di definirlo con gli strumenti della ragione umana, come la rugiada sull’erba nelle mattine di primavera. (25)
Ora che il Nazismo era stato abbattuto e Jaspers avvertì tutta la propria estraneità culturale a quello che stava avvenendo nel paese. Un paese umiliato, che si apprestava ad essere ricostruito seguendo obbediente i valori dei vincitori, i quali, dopo i primi anni di occupazione, permettevano ormai ai Tedeschi di non fare eccessivamente i conti con il passato. Una nazione dove il benessere capitalistico avrebbe presto sostituito ogni altra tensione morale ed anzi sarebbe divenuto l’unico scopo dell’esistenza, l’unica meta a cui tendere da parte dei cittadini. Il mercato un nuovo capo da servire, che si accontentava di manifestare il potere in modo molto più discreto, senza marce o stendardi o crimini efferati manifesti.
Così il vecchio filosofo si decise a partire per un esilio di tipo volontario e raggiunse Basilea, dove si poteva parlare in tedesco e continuare ad insegnare nella locale università. Accompagnato dalla moglie, visse nella città svizzera i suoi ultimi anni fino alla morte, che arrivò nel 1969. Per tutta la vita Karl Jaspers aveva cercato una definizione sicura della verità dell’Essere. Aveva racchiuso dentro di sé la visione medica e psicologica dell’individuo ed aveva avuto il coraggio di confrontarsi nello studio dell'uomo con gli strumenti più tradizionali della filosofia, come la logica, la dialettica ed il principio di non contraddizione. Aveva utilizzato ogni strumento della conoscenza umana per inseguire quell’Essere inafferrabile e tuttavia presente in ogni cosa, che spirava come un soffio di vento fresco tra gli alberi in un pomeriggio di calura estiva ed aveva fallito. In questo modo la verità, sempre ricercata, aveva finito per disvelare tutta la propria impossibilità alla ragione umana. Forse, in questo ultimo, consapevole e definitivo naufragio, risiedeva la più grande delle vittorie speculative di Jaspers e la sua ingombrante e affascinante eredità.
Bibliografia
1. Arendt H., La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1964.
2. Arendt H., Le origini del totalitarismo, Milano, 1967.
3. Arendt H., Ritorno in Germania, Milano, 2000.
4. Vattimo G., Introduzione a Heidegger, Bari, 2008.
5. Galimberti U., Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Torino, 1975.
6. Jaspers K., Filosofia, 1932.
7. Zilboorg G., Henry George W., Storia della Psichiatria, Roma, 2002.
8. Jaspers K., Psicopatologia Generale, Roma 1965.
9. Di Bartolo M., Einsicht. La costruzione del noetico in Husserl, Padova, 2006.
10. Husserl E., Ricerche Logiche, Milano, 1981.
11. Binswanger L., Saggi e conferenze psichiatriche, Milano, 2007.
12. Binswanger L., Il caso Ellen West ed altri Saggi, Milano, 1973.
13. Cantillo G., Introduzione a Jaspers, Bari, 2002.
14. Jaspers K., Psichologie der Weltanschauungen, Berlino, Heidelberg, New York, 1990.
15. Jaspers K., Existenzphilosophie. Drei Vorlesungen, Berlin 1938, trad. it. di O. Abate,
La filosofia dell’esistenza, Bompiani, Milano, 1967.
16. Heidegger M., Essere e Tempo, Milano, 2005.
17. Jaspers K., Metafisica, Milano, 2003.
18. Evans R.J., La nascita del Terzo Reich, Milano, 2006.
19. Kershaw I., Hitler e l'enigma del consenso, Roma-Bari, 2006.
20. Jaspers K., La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania,
Milano, 1996.
21. Goldhagen D.J.,I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e
l’Olocausto, Milano, 1997.
22. Jaspers K., Max Weber Il politico, lo scienziato, il filosofo, Roma, 1998.
23. Shirer W.L., Storia del Terzo Reich, Torino, 2007.
24. Levi P., Se questo è un uomo, Torino, 1981
25. Penso G., Essere e Dio in K. Jaspers, Firenze, 1972.
Federico E. Perozziello (2008-2018)
“…«Scelta» è l'espressione che indica la coscienza, che io ho, che decidendomi non mi limito ad agire nel mondo, ma forgio la mia propria essenza nella sua continuità storica. Io non so soltanto che sono qui e sono così e quindi agisco in questo modo, ma so che nell'agire e nel decidere sono nel contempo l'origine del mio agire e della mia essenza. Decidendomi sperimento la libertà come decisione non solo su qualche cosa, ma su me stesso, libertà in cui non è più possibile una distinzione fra scelta ed io, perché io stesso sono la libertà di questa scelta. Una mera scelta è quella fra determinazioni oggettive, ma la libertà è la scelta di me stesso. Non posso certamente creare una contrapposizione e quindi scegliere fra me stesso ed un non-essere-me-stesso, quasi che la libertà fosse uno strumento nelle mie mani. Invece: in quanto scelgo, sono; se non sono, non scelgo…”
da Karl Jaspers, Filosofia, 1932 (6)
Appare importante non dimenticare chi ha vissuto il periodo nazista con dignità, cercando di non abbandonare i presupposti dell’umanità e della ragione. Karl Jaspers è stata una di queste persone che in Germania, poche in verità, ebbero il coraggio di opporsi chiaramente all’ideologia ed alla sopraffazione nazista. Nato nel 1883 ad Oldenburg, in Bassa Sassonia, una cittadina nel cuore della Germania ed a poche decine di chilometri da Brema, fu influenzato all’inizio dei suoi studi dal padre Karl Wilhelm, un giurista di fama. Il giovane Karl si iscrisse così a legge, per passare poi, dopo solo qualche mese, a medicina. Laureatosi nel 1908, iniziò a frequentare l’Ospedale psichiatrico di Heidelberg, la città dove aveva studiato e dove rimarrà a vivere per la maggior parte della sua vita. Ad Heidelberg aveva lavorato il celebre psichiatra Emil Kraepelin (1856-1926), autore di importanti studi sulle psicosi ed in particolare sulla schizofrenia. Kraepelin aveva affrontato in modo sistematico e razionale lo studio delle malattie mentali, raccogliendo i sintomi presentati da un gran numero di pazienti per gruppi omogenei di casi clinici, gruppi che potessero indirizzare ad una diagnosi condivisa ed inoppugnabile. Riteneva che una volta individuati con certezza una serie di sintomi propri di ogni malattia mentale si potesse poi intervenire con successo nel ricercare in modo sperimentale e più sicuro le cause che avevano generato la patologia del pensiero allo stesso modo con cui le altre specialità mediche investigavano i rimedi e le cure delle malattie organiche di loro pertinenza. (7)
Jaspers si mostrò subito critico nei confronti di questo approccio al problema della malattia mentale di natura positivistica e di tipo sperimentale. Rivendicando una modalità di studio della psichiatria di carattere più antropologico, che tenesse conto della complessità e dell’originalità della persona, in uno dei sui libri più celebri affermò:
“… il fatto che le malattie mentali siano fondamentalmente umane ci obbliga a non vederle come un fenomeno naturale generale, ma come un fenomeno specificamente umano…"
da Karl Jaspers, Psicopatologia Generale, Roma, 1965 (8)
L’attenzione verso il malato psichiatrico di Jaspers fu dunque un interesse rivolto prima di tutto alla sua unicità, ad una capacità di osservazione complessiva dell’individuo malato che andasse al di là della catalogazione dei suoi sintomi. In Jaspers si era manifestato un mutamento nel metodo di osservazione del malato psichiatrico. Il sintomo diventava un segno che indicava un diverso modo di elaborare l’esperienza del vissuto da parte del paziente. Il principio dell’anomalia psichica andava ricercato all’interno dell’individuo e questa particolarità non diventava una semplice disfunzione organica, ma segnalava e connotava un certo modo di quella persona di essere nel mondo e di progettare una sua originale esistenza diversa da quella dei così detti “normali”. Occorreva pertanto rivedere il fenomeno costituito dalla malattia psichiatrica dal punto di vista del malato e non solo da quello di chi lo stava indagando, uno psichiatra e terapeuta osservatore non neutrale. Si trattava di partecipare al fenomeno manifestato in modo che esso rivelasse la propria natura a chi lo potesse comprendere attraverso una metodologia di tipo fenomenologico, secondo la lezione del filosofo Edmund Husserl (1859-1938). (9, 10)
Husserl aveva elaborato nei primi anni del secolo XX una sua particolare ricerca filosofica, che aveva esposto nel saggio Ricerche Logiche (Logische Untersuchungen) del 1900-1901.
Il filosofo austriaco-moravo aveva distinto tra l’atto mentale che portava alla conoscenza, che aveva chiamato noesis ed il fenomeno da cui il pensiero era stato colpito e che quest’ultimo cercava di descrivere, che aveva denominato noema. Nello sforzo di arrivare a comprendere l’essenza delle cose che popolavano la realtà, Husserl aveva proposto l’attenersi ad una sospensione del giudizio, che venne da lui chiamata epoché. In questo modo l’uomo sarebbe giunto ad avere un’idea della realtà la più vicina possibile all’essenza del reale, investigando dentro di sé la raffigurazione di questa che egli si sarebbe potuto costruire. Il mondo diventava quello che l’individuo era in grado di rappresentarsi, indipendentemente da ciò che abitava il circondario della persona stessa. Veniva portata all’esasperazione l’idea cartesiana del cogito ergo sum e nello stesso tempo si intuiva come delle idee deliranti o fuori dal coro, tipiche del malato psichico, potessero acquistare in questa visione una loro dignità di ruolo e di comprensione. (9, 10)
Un’idea portante di Jaspers era costituita dal superamento dell’antico dualismo tra anima e corpo, che poteva ridurre pericolosamente ogni espressione della natura umana a modificazioni organiche del Sistema Nervoso Centrale, sia in senso fisiologico che patologico. La contrapposizione tra psiche e corpo assumeva i contorni di una mera astrazione ed un’astrazione che poteva ostacolare la comprensione della persona invece di facilitarla. Una persona ed un essere umano che andavano prima di ogni cosa considerati come un tutt’uno armonico. Quest’ultima affermazione di Jaspers lo portò ad una critica radicale della metodologia dell’indagine scientifica. Se nella ricerca sperimentale si partiva da un piano di oggettivazione del reale attraverso delle ipotesi di natura matematica, la conoscenza scientifica veniva ridotta ad un mero dato oggettivo. Qualcosa che poteva essere studiata dall’esterno, ma che rischiava di essere mortificata da quella che risultava essere una semplificazione matematica. La natura dell’uomo non era limitata alla sola comprensione del corpo e la sua essenza risiedeva oltre questa dimensione, al di là di ogni possibile ed afferrabile oggettivazione. La conclusione provvisoria di questo ragionamento affermava che non si poteva comprendere dall’esterno l’essere dell’Uomo. Occorreva tentare di comprenderlo anche dall’interno, prendendo atto delle sue possibilità trascendenti. (8)
Si trattava di idee che troveranno un loro ulteriore sviluppo ed una enfatizzazione nelle teorie dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966), contemporaneo di Jaspers ed amico e corrispondente di Sigmund Freud. (11, 12)
Binswanger pensava alla malattia mentale come ad uno dei modi possibili di porsi dell'essere umano nei confronti del mondo che lo circondava, una disposizione soggettiva dell’individuo nei confronti della realtà e della vita di relazione con altre persone. Uno degli studi più interessanti di Binswanger venne rivolto all’esame della diversa consapevolezza del senso del tempo che era presente nei soggetti deliranti rispetto a quelli non affetti da patologie psicotiche. La concezione stessa di terapia psichiatrica risultava mutata nell’insegnamento del medico svizzero. Il terapeuta diventava colui che interagiva con l’intimità dell’esistenza dell’ammalato e della persona che aveva di fronte.
Secondo Binswanger, le dottrine psichiatriche di tipo organicistico e sperimentali, che facevano riferimento ad un modello medico-biologico puro di lettura della malattia mentale, perdevano di vista il senso più profondo del lavoro terapeutico e trascuravano il valore della presenza e della comunicazione umana. Furono questi presupposti che portarono lo psichiatra svizzero ad esercitare la professione in una clinica psichiatrica molto particolare, in cui viveva a contatto diretto e continuo con i propri pazienti ed in cui poteva osservare direttamente la loro vita. Si trattava del Bellevue Sanatorium di Kreuzlingen, la città natale di Binswanger sul lago di Costanza, che egli diresse per lunghi anni fino al 1956. Questo riferimento diretto al senso dell’essere ed alla specificità della natura umana, ci porta a raccontare la parte della vita e del pensiero di Jaspers più propriamente collegate alla speculazione filosofica. (13)
Nel 1913, presso l’Università di Heidelberg, Jaspers aveva iniziato un percorso di studio e di insegnamento della Psicologia. Nel 1919, divenuto ormai docente di Filosofia, del cui Dipartimento la Psicologia faceva a quel tempo parte, pubblicò un saggio dal titolo di Psychologie der Weltanschauungen (Psicologia delle visioni del mondo). (14) In questo libro Jaspers si occupava della problematica relativa ad una delle grandi questioni filosofiche di ogni tempo. Anzi, forse dell’unica grande domanda che era alla base di tutte le successive che gli esseri umani si erano posti: che cosa era l’Essere e quali erano i suoi rapporti con gli Enti?
Il concetto di Essere aveva fatto la sua comparsa nel pensiero con Parmenide di Elea (515-450 a.C.), autore della celebre affermazione:
“… È necessario il dire e il pensare che l’Essere sia. Infatti l’Essere è,
il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare …”
da Parmedide di Elea, Sulla Natura, Frammenti
Il pensiero di Parmenide fu il primo tentativo di trovare un senso al divenire del mondo, alla mutevolezza continua delle cose e della vita umana. Nel linguaggio comune essere ed esistenza sono spesso considerati come equivalenti. Il filosofo greco cercò per primo di uscire da questo malinteso logico, per costruire un contenitore del senso delle cose tutte, un quid che permettesse di comprendere il significato dell’esistenza del mondo e del suo continuo divenire: l’Essere appunto. Se vogliamo immaginare la natura più autentica dell’Essere parmenideo, dobbiamo pensarlo come un principio trascendente ed immutabile, che permea di sè tutta la realtà, senza esserne a sua volta condizionato. La dialettica tra gli Enti, intesi come le entità che popolano il mondo storico e percepibile, gli uomini e la natura in tutte le sue componenti, quali rocce, alberi od animali e l’Essere vero e proprio, era stata nei secoli sottoposta ad uno sviluppo e ad una riflessione continui. Jaspers se ne servì per portare la sua critica ai fondamenti della conoscenza filosofica e di quella scientifica. Per prima cosa definì i rispettivi campi di influenza delle due parti del sapere che stava esaminando: la Filosofia e la Scienza:
“… Prima di rifarci alla filosofia dobbiamo determinare obiettivamente il rapporto per nulla equivoco fra la filosofia attuale e la scienza. Anzitutto sono divenuti chiari i limiti della scienza; essi possono essere così brevemente caratterizzati: a) la conoscenza scientifica delle cose non è conoscenza dell’ “Essere”; la conoscenza scientifica è particolare, diretta su oggetti determinati, non è diretta sulla realtà stessa. Perciò la scienza rappresenta dal punto di vista filosofico, proprio per mezzo del sapere, il sapere più radicale del “non sapere”, cioè il non sapere ciò che è l’Essere stesso; b) la conoscenza scientifica non è in grado di dare nessuna direzione per la vita. Non stabilisce valori validi; la scienza come scienza non può guidare la vita; per la sua chiarezza e decisione, essa rimanda a un altro fondamento della nostra vita; c) la scienza non può dare nessuna risposta alla domanda riguardante il suo vero e proprio senso: il fatto che la scienza esista è basato su impulsi che non possono essere neppure essi stessi dimostrati scientificamente come veri e come tali da dover esistere …”
da K. Jaspers, La filosofia dell’esistenza, Milano, 1967 (15)
In questo pensiero del filosofo tedesco è racchiuso uno dei suoi messaggi più importanti. La Scienza in quanto tale appare incapace di raggiungere una comprensione accettabile ed armonica della realtà in cui opera. Essa rivolge la propria attenzione agli Enti, a tutto ciò che è presente, vive e si agita sulla superficie di questo pianeta, come negli spazi siderali, ma in nessun modo la Scienza riesce ad afferrare ed a comprendere la natura dell’Essere. Questo tutto permea ed avviluppa, come scrive lo stesso Jaspers.
Anzi, continuando a studiare per secoli la natura degli Enti, la Scienza si è dimenticata della loro differenza con l’Essere ed ha finito per confondere i due piani della ricerca. Questo fatto costituisce la principale “colpa” della visione positivistica della Scienza moderna, responsabile di aver disgiunto la ricerca del sapere da ogni guida morale al suo utilizzo. Nell’ansia di trovare dei fattori comuni che siano condizione unificante per gli Enti, la scienza positiva dimentica l’unicità dell’individuo e diventa incapace sia di comprenderlo in modo profondo, che di scoprire la trascendenza dell’Essere che compenetra ogni cosa presente nel mondo ed ogni oggetto dello studio e della sperimentazione. (5, 13)
Karl Jaspers è stato considerato il principale precursore della corrente filosofica del Novecento che prende il nome di Esistenzialismo. L’Esistenzialismo è una modalità di pensiero filosofico che viene da lontano. Convenzionalmente si ipotizza una data di inizio nel secolo XIX, con le figure di filosofi e di scrittori come Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij e Kafka. In realtà, se andiamo indietro nel tempo, tracce di una visione esistenziale del vivere si trovano sia nelle opere di Blaise Pascal che in quelle di Sant’Agostino. Se vogliamo darne una definizione semplice, dobbiamo parlare dell’Esistenzialismo come di una corrente di pensiero costituita da molte esperienze e riflessioni filosofiche individuali di uomini e di filosofi che si interrogano sul senso ultimo dell’esistenza. Persone che cercano, al di là dello sgomento iniziale sulla gratuità e sulla mancanza di determinanti razionali dell’esistere, un principio di comportamento ed una verità in cui credere che li sollevi dall’angoscia di doversi misurare con una quotidiana insoddisfazione. Una risposta che permetta loro di affrontare e sostenere gli interrogativi sul perché dell’esistenza in cui si sono trovati a vivere.
Quando era ancora un giovane professore di psicologia, Jaspers fu anticipatore in alcuni suoi scritti del dibattito filosofico sull’Esistenzialismo. L’uscita del suo libro Psicologia delle visioni del mondo del 1919 può essere considerata la prima espressione della corrente esistenzialista tedesca, molti anni prima del celebre libro di Martin Heidegger (1889-1975) Essere e Tempo. (16) Uscito nel 1927, Essere e Tempo costituì il punto di partenza di un rinnovato dibattito sulle tematiche esistenziali. Considerato da molti come il più grande filosofo del Novecento, la figura di Heidegger appare ancor oggi controversa. (4, 5) Ha pesato soprattutto su di lui la mancanza di una sua netta presa di posizione nei confronti del Nazismo, verso il quale mostrò invece un atteggiamento di non aperta critica, che gli consentì di continuare ad insegnare indisturbato per anni, mentre molti importanti filosofi di quel tempo, a partire dal suo maestro Husserl, venivano messi a tacere o costretti ad abbandonare la Germania perché ebrei.
Un destino simile fu riservato anche ad Jaspers. La moglie di Jaspers, Gertrud Mayer, era ebrea. Il loro matrimonio risaliva al 1910, ma con l’avvento al potere di Hitler nel gennaio del 1933 e le leggi di discriminazione razziale successive, il fatto di aver sposato un’ebrea metteva Jaspers nella condizione di essere considerato un oppositore del regime o almeno sospettabile di esserlo. Nel 1937 gli venne pertanto revocata la cattedra universitaria ad Heidelberg e da allora visse ritirato, come un prigioniero nella sua stessa casa. Non volle fuggire all’estero, sia per le precarie condizioni di salute, che per una certa pigrizia e forse fatalità del carattere. Nel 1938 gli fu intimato anche di smettere di pubblicare i suoi lavori e fu, in un certo senso, condannato al silenzio ed alla morte civile. Insieme alla moglie attese per anni che le cose cambiassero. Molti amici di un tempo lo avevano abbandonato ed i due coniugi temevano di essere deportati in ogni momento. Pare addirittura che Jaspers si fosse procurato del cianuro da assumere insieme alla consorte per evitare di essere internato in un lager e che lo tenesse sempre a portata di mano. Gli anni della guerra trascorsero comunque fino alla liberazione di Heidelberg da parte degli Alleati, il 30 marzo del 1945.
Jaspers riacquistò la libertà, in un paese che era diventato un immenso campo di rovine materiali e morali. E’ un dato di fatto sottolineare come nella sua esistenza questo filosofo si sia dovuta aspramente confrontare con i presupposti teorici del proprio pensiero. Pensiamo ad esempio alle idee di Jaspers sul significato della trascendenza dell’esistere, sulla sensazione di disagio e di malessere che l’uomo prova quando diventa pienamente consapevole dei limiti della propria umana condizione. Uno stato di crudele evidenza che può sperimentare solo attraversando un frangente di naufragio, come avviane nelle grandi prove della vita: la malattia, la morte di una persona cara, un disastro economico e professionale.
Scrisse il filosofo:
“… da ultimo vi è il naufragio; lo dimostra l’orientazione nel mondo che inesorabilmente si attiene ai fatti. [...] Per l’orientazione nel mondo, il mondo in quanto esserci naufraga, perché in sé e da sé non si lascia comprendere [...] Se dunque il naufragio, a cui io mi abbandono a piacere, è solo il nulla vuoto, allora il naufragio che mi coglie, quando ho fatto veramente di tutto per evitarlo, bisogna che non sia solo naufragio. Allo stesso modo io sperimento l’essere, quando nella sfera dell’esserci ho fatto quello che potevo per difendermi; e analogamente, quando, come esistenza, rispondo completamente di me e da me tutto esigo, ma non posso sperimentare l’essere quando, nella coscienza della mia nullità di creatura di fronte alla Trascendenza, mi abbandono alla caducità propria dell’essere creatura …”
da Karl Jaspers, Metafisica, Milano, 2003 (17)
L’essere umano è condannato ad apprezzare l’esistenza ed il suo valore trascendente solo in situazioni limite in cui il suo io, nell’imminenza di un pericolo o di un dolore vissuto, apprezza il senso del vivere che altrimenti gli sfuggirebbe e gli sfuggirà comunque. Il termine naufragio è quello che Jaspers utilizza per definire in modo comprensibile il significato ultimo dell'esistenza umana. Si tratta di una metafora filosofica che descrive il divenire continuo della realtà, opposto al desiderio innato dell’uomo di avere dei punti fermi di riferimento, in modo da far cessare la disperazione di essere in balia dell’instabilità che popola il mondo. Un mondo che egli vede e percepisce come un fenomeno complesso, una serie di accidenti di cui gli sfugge la motivazione più profonda. Nonostante gli esseri umani si sforzino in ogni modo di afferrarsi ad un appiglio di immutabilità, sono condannati a convivere con la precarietà della loro vita. Attraversando nel tempo le loro situazioni limite, costituite dal dolore, dal confronto con la malattia e la morte, le persone giungono a percepire il significato del trascendente, che permea ogni Ente e tuttavia non si fa conoscere.
La Scienza non può svelarlo o spiegarlo, perché è a sua volta ripiegata ideologicamente nel proprio rassicurante determinismo, uno strumento limitato con cui al massimo potrà rivelare alcune caratteristiche degli Enti, illustrarne magari le leggi che li governano, ma non certo afferrare l’altro da sé che li giustifica e ne conferisce la ragione. Così all’uomo non resta che la rassegnazione ed il silenzio, in cui percepisce la presenza di un Trascendente che illumina un orizzonte di conoscenza cui egli non potrà che tendere, senza mai arrivare compiutamente ad osservarlo. Solo l’accettazione di questa verità permetterà all’uomo di accettare il divenire e vivere la conoscenza scientifica per quello che essa realmente rappresenta: uno strumento limitato per indagare il mondo percepibile, nulla di più. (13)
Tuttavia la rassegnazione è una condizione a cui non si può sottostare a lungo. La filosofia fornisce degli strumenti logici e teoretici per cercare di comprendere il senso del continuo divenire, in uno sforzo destinato alla sconfitta ed al naufragio, ma non privo di una propria dignità e nobiltà. Nella pace relativa della rassegnazione l’essere umano vive in silenzio una condizione di limitatezza, cercando di afferrare il senso dell’esserci, nel mutare continuo del Mondo:
"…Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un'indefettibile fiducia in esso…"
da Karl Jaspers, Filosofia, libro II, cap.1, 1932 (6)
La filosofia fornirà dunque la comprensione del divenire continuo ed in questa visione l’animo umano troverà, se non la salvezza, almeno la possibilità di comprendere parzialmente la natura dell’Essere e della sua assoluta ed inafferrabile trascendenza. Una comprensione individuale, diversa per ogni uomo, ma necessaria per accettare il proprio ruolo nel contesto degli Enti e nel fluire infinito dell’Essere inconoscibile ed incomprensibile. (15)
La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò per Jaspers il ritorno all’insegnamento. Le cose erano cambiate e la realtà della Germania non poteva prescindere da quello che era successo durante la follia criminale del Nazismo. Nel suo saggio La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Jaspers raccolse una serie di lezioni da lui tenute nella Heidelberg post bellica degli anni 1945-46. (20)
Il popolo tedesco era venuto ormai a conoscenza, senza ombra di dubbio e possibilità di disconoscimento, dell’enormità dell’Olocausto. Come interpretare questa colpa, come farsi ragione della responsabilità storica che sembrava gravare su tutta la nazione? Il filosofo e medico tedesco diede una sua interpretazione particolare dell’elemento di colpa che gravava come un’ombra su tutto il paese. (18, 19)
Secondo Jaspers era possibile distinguere quattro diverse tipologie di colpa: la colpa criminale, la morale, la politica ed infine la colpa metafisica. La colpa di tipo criminale e morale erano da ascriversi solo alla responsabilità del singolo. Veniva in questo modo rigettata l’ambiguità nazista di attribuire al popolo tedesco nel suo complesso, il Volk, una qualche forma di personificazione astratta che gli permettesse di intervenire nella storia, sterminando popolazioni etnicamente diverse in nome delle proprie ragioni o presunte superiorità razziali. Della colpa politica i Tedeschi erano invece direttamente responsabili e con diverse gradazioni. Vi erano stati coloro che avevano sostenuto attivamente e permesso l’ascesa del regime nazista e coloro che avevano tollerato in silenzio quel procedere criminale, per giungere infine ai tedeschi che si erano astenuti dal prendere una posizione nettamente contraria alla dittatura. Il popolo perdeva così la condizione originaria di innocenza collettiva e diventava un soggetto di decisione, un protagonista che sceglieva la propria forma di governo e si condannava volontariamente e colpevolmente all'oppressione.
Traspare da questa interpretazione di Jaspers la sua adesione alle profetiche teorie politiche di Max Weber (1864-1920), un intellettuale, economista e sociologo tanto ammirato in gioventù da Jaspers da avergli dedicato una monografia. (22) Weber aveva profeticamente delineato le caratteristiche di una possibile legittimazione carismatica del potere. Aveva prefigurato l’ascesa di leader come Hitler e Mussolini, che erano arrivati al governo in seguito ad elezioni democratiche e quindi per una libera scelta degli elettori, che avevano deciso autonomamente da chi volevano essere governati.
Un popolo che si era affidato al suo Capo, al Führer, in cui aveva riconosciuto doti fuori dal comune, qualità che ne avevano legittimato l’investitura. Il popolo tedesco era quindi responsabile direttamente del Nazismo, la forma di governo che si era attribuita liberamente con le elezioni del gennaio del 1933. Anche chi non era andato a votare in quell’occasione, astenendosi, recava adesso la responsabilità di aver favorito la presa del potere da parte di Adolf Hitler. (21, 23)
Esisteva infine una forma di colpa di tipo più squisitamente metafisico. Il semplice far parte di una comunità umana che aveva praticato lo sterminio faceva sì che i sopravvissuti si riconoscessero, in un diverso livello di coscienza, come colpevoli di essere ancora vivi e membri di un popolo che aveva compiuto il più orrendo dei crimini. Questa condizione rappresentava la forma più sottile di punizione per gli orrori commessi, un qualcosa che non poteva essere allontanato dalle coscienze tanto facilmente e con l’uso della ragione. Come avrebbe raccontato Primo Levi (1919-1987), internato e sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau, la follia lucida dei lager e dei campi di sterminio avrebbe pesato a lungo sui contorni del sentire e della memoria umana. Avrebbe aleggiato per sempre come un’ombra, capace di offuscare anche i momenti di maggiore trionfo scientifico dell’Uomo, poiché l’orrore era stato coscientemente perseguito e raggiunto da molti e questo fatto non sarebbe mai stato possibile dimenticarlo.
Leggiamo un passo tratto da uno dei libri di Levi, che ci riporta con assoluta fedeltà a quei giorni ed a quei crimini:
“…Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi. La notizia è giunta, come sempre, circondata da un alone di particolari contraddittori e sospetti: stamattina stessa c'è stata selezione in infermeria; la percentuale è stata del sette per cento del totale, del trenta, del cinquanta per cento dei malati. A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. I giovani dicono ai giovani che saranno scelti tutti i vecchi. I sani dicono ai sani che saranno scelti solo i malati. Saranno esclusi gli specialisti. Saranno esclusi gli ebrei tedeschi. Saranno esclusi i Piccoli Numeri. Sarai scelto tu. Sarò escluso io…”
da Primo Levi, Se questo è un Uomo, Torino 1981 (24)
Il Popolo Tedesco aveva sbagliato, ma non era cattivo per il semplice fatto di esistere. Altri, in futuro, avrebbero potuto commettere crimini simili. Il processo di Norimberga, che aveva condannato a morte alcuni dei più importanti gerarchi nazisti catturati, aveva visto sedere tra i propri giudici persone provenienti dalla Russia staliniana, dominata da un regime brutale e che si era macchiato anch’esso di crimini e colpe gravi. La ferocia dei totalitarismi era infatti fondata, secondo Jaspers, sulla loro inconsistenza culturale e sulla loro incapacità a comprendere il mondo se non attraverso la forza e la sopraffazione nei confronti dei dissidenti, di coloro che non volevano omologarsi alle direttive del potere. In una tensione mai abbandonata verso la speranza, Jaspers concluse il proprio saggio sulla Colpa con una citazione dalla Bibbia. Andò così a cogliere di nuovo ed a ricordare ai suoi lettori, il senso antico del porsi dell’Uomo nei confronti della Storia e del suo confrontarsi con Dio. Lo fece citando le parole del profeta Geremia sulla distruzione di Gerusalemme:
“… Così parla Jahweh: Invero quello che io ho costruito lo abbatto al suolo e quello che io ho piantato, lo sradico; e tu chiedi per te alcunché di grandioso? Non lo chiedere …"
Geremia (45, 4-5)
La conclusione di Jaspers affermava come Dio ponesse dei limiti all’orgoglio umano e ne costituisse l’unico punto fermo dell'esistenza. L’uomo, nella visione jaspersiana, era un essere nudo e disarmato, privato dell'orgoglio di poter modificare il mondo attraverso la guerra e la violenza, ma anche disilluso sul potere di conoscenza della Scienza e dei demoni che aveva evocato. Tuttavia, anche se ogni illusione di dominio sulla storia e di grandezza illimitata era svanita e l’anima umana doveva ora confrontarsi, tra le macerie dei bombardamenti, con la sua natura e le proprie colpe, Dio rimaneva come una pietra di paragone all’indefinibile instabilità in cui lo spirito umano si dibatteva. Era una condizione che doveva e poteva bastare per vivere e scegliere una forma di governo democratico, sempre imperfetto, ma l’unico giusto e solidale possibile. Questo riconoscimento di Dio poteva cogliere, per un attimo soltanto, l’eternità immutabile dell’Essere, prima che questi scomparisse di nuovo quando si tentava di definirlo con gli strumenti della ragione umana, come la rugiada sull’erba nelle mattine di primavera. (25)
Ora che il Nazismo era stato abbattuto e Jaspers avvertì tutta la propria estraneità culturale a quello che stava avvenendo nel paese. Un paese umiliato, che si apprestava ad essere ricostruito seguendo obbediente i valori dei vincitori, i quali, dopo i primi anni di occupazione, permettevano ormai ai Tedeschi di non fare eccessivamente i conti con il passato. Una nazione dove il benessere capitalistico avrebbe presto sostituito ogni altra tensione morale ed anzi sarebbe divenuto l’unico scopo dell’esistenza, l’unica meta a cui tendere da parte dei cittadini. Il mercato un nuovo capo da servire, che si accontentava di manifestare il potere in modo molto più discreto, senza marce o stendardi o crimini efferati manifesti.
Così il vecchio filosofo si decise a partire per un esilio di tipo volontario e raggiunse Basilea, dove si poteva parlare in tedesco e continuare ad insegnare nella locale università. Accompagnato dalla moglie, visse nella città svizzera i suoi ultimi anni fino alla morte, che arrivò nel 1969. Per tutta la vita Karl Jaspers aveva cercato una definizione sicura della verità dell’Essere. Aveva racchiuso dentro di sé la visione medica e psicologica dell’individuo ed aveva avuto il coraggio di confrontarsi nello studio dell'uomo con gli strumenti più tradizionali della filosofia, come la logica, la dialettica ed il principio di non contraddizione. Aveva utilizzato ogni strumento della conoscenza umana per inseguire quell’Essere inafferrabile e tuttavia presente in ogni cosa, che spirava come un soffio di vento fresco tra gli alberi in un pomeriggio di calura estiva ed aveva fallito. In questo modo la verità, sempre ricercata, aveva finito per disvelare tutta la propria impossibilità alla ragione umana. Forse, in questo ultimo, consapevole e definitivo naufragio, risiedeva la più grande delle vittorie speculative di Jaspers e la sua ingombrante e affascinante eredità.
Bibliografia
1. Arendt H., La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1964.
2. Arendt H., Le origini del totalitarismo, Milano, 1967.
3. Arendt H., Ritorno in Germania, Milano, 2000.
4. Vattimo G., Introduzione a Heidegger, Bari, 2008.
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Federico E. Perozziello (2008-2018)