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                      La Medicina a Bisanzio
                               tra
                 Oriente e Occidente



“… bisogna dunque mettere a confronto il danno che ci si attende dalla somministrazione del vino al paziente con il vantaggio che ci si aspetta di ricavarne. Qualora gli elementi a favore siano preponderanti è concesso far assumere del vino al malato senza impensierirsi troppo. E’ sempre possibile infatti che un farmaco che arrechi un giovamento possa fare contemporaneamente anche qualche danno.
      Il medico ha il compito di mettere a confronto e valutare tali situazioni, perché se ogni rimedio è somministrato secondo le giuste proporzioni e in quantità corretta, a tempo debito e con decisa tempestività, tutti gli interventi dell’arte medica avranno buon fine e raggiungeranno l’esito migliore …”
 
                        da Alessandro di Tralles (525-605), Therapeutica, I libro
 
    La medicina bizantina appariva come l’erede naturale di quella greca e romana. Gli insegnamenti di Ippocrate e di Galeno, ereditati dal mondo classico, trovarono a Costantinopoli dei fedeli continuatori che potevano consultare senza fatica le opere dei loro grandi precursori. Un privilegio  di cui le impoverite e più selvagge regioni europee occidentali non poterono godere fino al debutto delle Crociate. Solo allora, con l’arrivo in Occidente di molte opere dell’antichità classica di cui non si era conosciuta per secoli neppure l’esistenza, il patrimonio culturale delle due parti del mondo medievale fu parzialmente riequilibrato. Tuttavia la medicina a Bisanzio non trovò solo degli sterili e pedanti conservatori delle nozioni del passato. Specie nei primi secoli dell’impero bizantino vissero e lavorarono anche audaci innovatori che lasciarono un segno marcato nella storia della medicina. (1)

    La scuola ippocratica, origine e fondamento culturale e ideologico della medicina razionale era stata fondata da Ippocrate, vissuto nel V secolo avanti Cristo a Kos o Coo, un’isola greca del Dodecanneso. Il corpus delle opere attribuite a Ippocrate è imponente. Se ne conoscono cinquantatré per un totale di settantadue libri e furono raccolte e ordinate nella loro veste definitiva in epoca alessandrina, circa tre secoli dopo la loro stesura. Ippocrate predicò il rifiuto dell’esercizio della medicina come pratica magica mettendo sempre al centro dell’attività del medico per comprendere e curare la malattia  la ragione e l’esperienza. Il medico seguace della scuola ippocratica doveva essere per prima cosa un uomo equilibrato e saggio. Era necessario che praticasse le virtù di una vita prudente ed equilibrata, rifuggendo dagli eccessi. (2)
    Il distacco negli affari personali e l’assenza del desiderio di un facile arricchimento attraverso il dolore dei propri simili gli avrebbero conferito la lucidità e l’acume necessari ad avvicinarsi nel modo più efficace possibile alla verità sulle cause della malattia che stava curando.
Il fondamento della medicina ippocratica era basato sulla certezza della capacità di guarigione intrinseca dell’organismo. I seguaci di Ippocrate fecero affidamento sulla forza guaritrice della natura, la physis vitale presente in ogni essere umano e capace di conservare il più a lungo possibile la salute. Questa impostazione metodologica suggeriva ai medici la necessità di non danneggiare ulteriormente e per ignoranza le condizioni dei  loro malati utilizzando terapie di tipo sciamanico oppure sostanzialmente improprie. (3)

    In un’epoca caratterizzata dalla prevalenza di elementi magici e irrazionali nell’esercizio della medicina un atteggiamento prudente del medico era capace di assicurare da solo un considerevole numero di successi terapeutici basati sull’astinenza da pratiche inutili e quasi sempre dannose. Un comportamento che per certi versi anticipava quello di un grande clinico medico europeo vissuto nel XIX secolo, il boemo Joseph Skoda (1805-1881). Questi, deluso dalle scarse prospettive di terapia razionale fornite dalla medicina del  tempo, propugnò il così detto nichilismo terapeutico. Sosteneva infatti Skoda, di cui erano note l’acutezza dello sguardo clinico e la maestria nel visitare l’ammalato, che il fine ultimo del medico fosse giungere a una diagnosi precisa senza lasciarsi fuorviare da tentativi terapeutici velleitari e privi di basi certe di efficacia che potevano inquinare il quadro dei sintomi e dei segni presentati dal paziente. Allo scopo di conferire una sistematicità e una maggiore utilità pratica al loro codice speculativo i seguaci di Ippocrate elaborarono la così detta Teoria degli umori. Si trattava di una visione del corpo umano destinata ad avere fortuna e seguito fino alle soglie dell’Età Moderna, tanto da essere ancora insegnata nelle facoltà mediche europee all’inizio del XVIII secolo. (3, 4)
    Nei quattro umori fondamentali che pervadevano il corpo umano, il sangue, il muco, la bile gialla e la bile nera, i medici ippocratici individuarono un complesso sistema di governo delle funzioni fisiologiche dell’organismo con una corrispondenza diretta tra gli umori e le qualità fondamentali del mondo inanimato. Ne derivò uno schema quadripartito delle funzioni vitali che fu alla base nell’Antichità e nel Medioevo di ogni tipo di comprensione medica della vita e della salute. Quest’ultima dipendeva dall’equilibrio dei quattro umori, mentre lo stato di malattia era conseguente al loro squilibrio. Le due condizioni, quella di salute e quella di malattia, vennero definite anche come eukrasia, che consisteva nella buona mescolanza degli umori e djskrasia, legata invece alla cattiva mescolanza degli stessi: (5)
 
sangue       =    aria
muco          =    acqua
bile gialla  =    fuoco
bile nera     =    terra
 
Lo schema ippocratico delle funzioni vitali
in accordo con la Teoria degli umori
 
     Lo stato di salute era costituito dal fragile equilibrio tra i diversi opposti che potevano prevalere in modo alterno e sfumato nella costituzione e nella storia della persona determinandone un caratteristico profilo individuale. Una particolare condizione formata dall’interazione disarmonica tra i vari umori venne definita come idiosincrasia e determinava la predisposizione ad ammalarsi oppure a conservare lo stato di salute. Con il trascorrere delle stagioni e della vita dell’uomo la prevalenza di uno o dell’altro degli umori variava, favorendo un rapporto di relazione diretta e complesso tra l’individuo e l’ambiente. Anche gli atteggiamenti psicologici  venivano influenzati da questa interazione. (3)
    Dalla teoria degli umori derivò quella dei quattro temperamenti, caratteristici di quattro diversi tipi di personalità. Una semplificazione che rendeva possibile diverse e specifiche modalità di approccio medico ai pazienti:
 
- il sanguigno allegro (con prevalenza del sangue)
- il collerico irascibile (con prevalenza della bile gialla)
- il melanconico depresso (con prevalenza della bile nera)
- il flemmatico pigro (con prevalenza del muco)
 
                 la Teoria dei quattro temperamenti
 
     Si trattava di  una visione del corpo umano che aveva il pregio di armonizzarsi in modo convincente con il contesto naturale che circondava l’individuo. Ne derivò un sistema di insegnamento della medicina che ebbe un influsso rilevante sia in Età Classica che nel Medioevo.  Si promossero delle modalità di comportamento del medico coerenti con questi presupposti teorici che finirono con l’essere creduti indubitabili e sicuri. Provocarono delle ricadute pratiche nell’applicazione delle cure e dei medicamenti. La prevalenza o la disarmonia di ciascuno dei quattro umori fondamentali poteva e doveva essere affrontata e curata attraverso il presunto contrario. L’anomalia patologica riscontrata nel paziente rispetto al normale stato di equilibrio andava compensata ma non corretta in modo eccessivo. Secondo Claudio Galeno (131-200 d.C.), il più celebre medico dell’antica Roma, proprio nell’equilibrio e nella misura di questa compensazione risiedeva la maestria del medico. La difficoltà principale consisteva nel reperire con sicurezza per ogni singolo rimedio la qualità intrinseca di caldo e di freddo, di asciutto e di umido. (4, 5)

      La medicina romana non ebbe un particolare interesse per le dispute ideologiche o dogmatiche. Si occupò invece di organizzare in modo sistematico le conoscenze ereditate dalla medicina greca, aprendosi con il consueto senso pratico latino anche al mondo orientale e alle sue credenze se queste risultavano utili e funzionali. Tra i più celebri studiosi di medicina della Roma antica non vi furono solo dei medici professionisti che esercitavano la loro attività sul campo a contatto con i malati, ma anche eruditi e studiosi delle diverse teorie biologiche che disponevano di grandi biblioteche e di un supporto umano fornito da schiavi colti e preparati nella ricerca bibliografica e nella compilazione di cataloghi e di riassunti. (6, 7)
    Celebre tra questi studiosi fu Aulo Cornelio Celso, vissuto tra la fine del primo secolo avanti Cristo e l’inizio del primo secolo dopo Cristo. Celso scrisse un grande trattato di sconfinata erudizione dal titolo di De artibus, in cui la medicina occupava ben otto libri. Questi sono giunti fino a noi con il titolo di De medicina e furono pubblicati per la prima volta grazie all’interessamento del papa Niccolò V (1397-1455), un appassionato umanista che aveva ritrovato personalmente il manoscritto creduto perduto degli otto libri di Celso.
Il De medicina conteneva numerosi richiami alla componente etica della professione, esaltando i valori di humanitas e di misericordia e mostrando una tendenza filantropica nella pratica medica  che sembrava anticipare la visione cristiana del mondo. (7, 8)

 Il destinatario più importante della medicina e dell’arte sanitaria nell’antica Roma erano le forze armate. Le legioni romane che presidiavano ogni angolo, anche il più sperduto di un impero così esteso da coincidere con quasi tutto il mondo allora creduto civilizzato, ascendevano a una forza effettiva sul campo di oltre 300.000 uomini, divisa al tempo della massima espansione territoriale, il II secolo d. C., in circa trenta legioni. Questo numero già considerevole di soldati verrà accresciuto ulteriormente dall’imperatore  Settimio Severo (193-211 d. C.) all’inizio del terzo secolo, con la costituzione di ulteriori tre legioni, la XXXI, la XXXII e la XXXIII. Su di una popolazione complessiva di circa cinquanta milioni di abitanti calcolata al tempo di Traiano (98-117 d. C.), erano dunque in servizio un numero di legionari pari a circa 330.000 effettivi, senza includere in questo calcolo le truppe ausiliarie reclutate localmente e le famiglie dei militari. Come hanno dimostrato le ricerche archeologiche, queste ultime accompagnavano i loro congiunti dal Vallo di Adriano in Scozia fino alle sabbie dei deserti africani o alle pietraie della Siria, lungo il confine con l’impero persiano. (9)
    Allo stesso modo erano presidiati il limes sul Reno e quello sul Danubio, attraverso una lunga serie di fortificazioni e di strutture difensive comprendenti caserme e cittadine fortificate a sostegno che sorgevano davanti alle umide e impenetrabili foreste della Germania, alla grande pianura pannonica e lungo il corso dei due grandi fiumi. La ferma sotto le armi di un legionario durava circa venti anni e spesso i militari non tornavano più ai loro luoghi di origine, ma preferivano stabilirsi nelle località dove avevano prestato servizio per lungo tempo e dove si erano magari costruita una stabile vita affettiva. Oltre a costituire un problema economico e politico mai completamente risolto questa massa ingente di soldati aveva bisogno di un servizio sanitario efficiente e qualitativamente affidabile. La cura dei Romani per l’organizzazione si manifestò con particolare impegno in questo campo. Venne creato un corpo di medici militari stipendiati dallo stato che seguivano le legioni nei loro spostamenti e nelle loro campagne. (2, 7)

    Il più famoso di questi sanitari fu Pedanio Dioscoride, nato ad Anazarba in Cilicia e vissuto nel primo secolo dopo Cristo, autore di un trattato di terapia medica in cinque libri dal titolo di De materia medica. Quest’opera ci è stata tramandata con cura dagli amanuensi medioevali attraverso molti codici, risultando per secoli il testo più autorevole e diffuso di terapia farmacologica delle malattie. Ogni monastero di una certa importanza si faceva vanto di possederne una copia, magari riccamente illustrata e annotata, che veniva consultata in ogni frangente di cura e assistenza agli infermi. (10, 11)
    Dioscoride aveva utilizzato un approccio di tipo empirico alla terapia che rendeva le sue ricette di facile comprensione e relativamente semplici da riprodurre nella pratica medica. Come medico militare aveva viaggiato per molti anni al seguito delle truppe nelle varie province dell’impero. Aveva appreso in questo modo, sulla base di una formazione tradizionale di tipo ippocratico, i segreti e gli espedienti curativi conosciuti dagli uomini e dalle culture delle più diverse e lontane località dell’impero. (7)
    L’interesse principale di questo autore riguardò le virtù medicinali delle piante. Le specie medicinali vennero da lui divise e descritte accuratamente in circa seicento tipi differenti, i loro effetti analizzati, i quantitativi terapeutici necessari per ogni patologia segnalati con cura. (10, 11)
    Ogni malattia veniva trattata con sostanze di cui si ipotizzava la proprietà di dare nell’ammalato un effetto contrario a quello provocato dal male e ogni patologia veniva esaminata e descritta in base ad un preciso schema di causa/effetto. Per la sua immediatezza di consultazione e per l’indubbia utilità il trattato di Dioscoride divenne un libro molto ricercato. La copia manoscritta più famosa che oggi possediamo è conservata a Vienna. Si tratta di un codice raffinato con illustrazioni dettagliate ed eleganti. Il Codex Aniciae Julianae o Codex Vindobonensis, come viene anche chiamato, costituì il dono del popolo di Costantinopoli alla nobildonna romana Anicia Giuliana (462-528), unica figlia dell’imperatore Anicio Olibrio (472) e fu compilato all’inizio del VI secolo d. C. come ringraziamento per la costruzione di una chiesa importante e fastosa da parte della principessa. (11, 12)

    Per tornare a Galeno, la cui autorità in campo medico fu indiscussa per molti secoli, questi nacque a Pergamo in Asia Minore. Era figlio di Nicone, un architetto e matematico che lo indirizzò poco dopo l’adolescenza agli studi medici. Galeno si formò culturalmente a Corinto in Grecia e in seguito ad Alessandria d’Egitto, prima di tornare nella sua città natale dove divenne medico dei gladiatori.
    Nel 161 d. C., all’inizio del regno dell’imperatore Marco Aurelio e nel periodo di massima pace e solidità strutturale dell’impero si recò a Roma. La sua fama crebbe rapidamente, tanto da essere nominato medico personale del sovrano e da accompagnarlo a Vindobonum (Vienna) nel corso delle guerre contro le tribù germaniche dei Quadi e dei Marcomanni che si susseguirono per quasi un ventennio. Lo assistette nell’epidemia di peste che devastò in quegli anni le province dell’impero e causò nel 169 d. C. la morte del collega imperatore Lucio Vero (161-169 d. C.) che Marco Aurelio aveva associato al trono. (6, 13)
    Galeno tornò quindi a Roma dove esercitò la professione di medico per circa un trentennio, dedicandosi a un’intensa attività di studio che contemplò anche la logica e la filosofia.  Nei suoi lavori Galeno mosse alla medicina del tempo la critica di aver abbandonato una visione razionale nel processo di conoscenza scientifica trascurando gli insegnamenti ippocratici e aristotelici. Insegnamenti che venivano ignorati non tanto nelle loro raccomandazioni pratiche quanto nell’abbandono del rigore metodologico ed etico che doveva accompagnare il medico nella professione. Galeno guardava con rammarico alla propria epoca in cui la medicina gli appariva essere praticata soprattutto per i benefici materiali che se ne conseguivano trascurando la ricerca della verità scientifica e il bene dell’ammalato. Con amarezza giunse a scrivere:  “… non è possibile arricchirsi e nello stesso tempo coltivare un’arte così grande, ma è necessario che chi desidera ardentemente l’una disprezzi l’altra …”.  (13)

    Nel suo pensiero era sempre presente una dimensione morale ed etica che doveva accompagnare l’abilità guaritrice del medico. Acutezza logica e sensibilità morale erano i due pilastri su cui si doveva reggere la vita di chi volesse rimanere fedele agli insegnamenti degli antichi maestri e nello stesso tempo desiderasse poterli innovare.  Il titolo di un’opera di Galeno, Hoti ho áristos iatròs kai filósofos (Come un ottimo medico debba essere anche un filosofo) costituì il manifesto programmatico della sua visione del mondo e della sua attività professionale ed esperienza umana.
    Il medico di Pergamo faceva propri i fondamenti della medicina ippocratica basata sulla fiducia nella capacità di guarigione dell’organismo e li integrava attraverso una coscienza e una visione della medicina riconosciuta come un’arte che doveva cercare e trovare i rimedi per curare le malattie attraverso l’esperienza e lo studio. Secondo la concezione greca la parola arte non rivestiva alcun significato di artistico come oggi la intendiamo. Arte era in questo caso traducibile con il termine greco di téchne, vocabolo con cui si definiva una disciplina teorica che si apprendeva da alcuni maestri e che conferiva la possibilità di donare un reale beneficio agli altri esseri umani. La medicina greca era dunque una téchne, una professione da tramandare attraverso l’esempio e l’insegnamento e da apprendere nelle sue basi teoriche con lo studio. (2, 3)
    Galeno accettò la concezione ippocratica della Teoria degli umori, ma ne elaborò una sua personale interpretazione cui era giunto attraverso una rigorosa e coerente metodologia scientifica. La medicina da lui propugnata si sarebbe dovuta basare su alcune teorie fisiopatologiche da verificarsi  nella pratica. Le conclusioni scientifiche dovevano considerarsi tali solo perché era possibile darne una spiegazione razionale. I risultati ottenuti dalla medicina risultavano il contrario delle verità fantasiose sostenute dalla retorica o dalla poetica. Galeno diede vita infatti a una vivace polemica contro gli insegnamenti su di una possibile  sede corporea dell’anima sostenuti dal filosofo stoico Crisippo (281-208 a.C.). Non era possibile affermare, come aveva predicato Crisippo basandosi sulle espressioni dei poeti, che nel cuore avesse sede l’anima. La dissezione anatomica del cadavere aveva dimostrato come nulla di simile all’anima fosse presente all’interno delle camere cardiache. Quindi l’ipotesi di Crisippo era priva di fondamento e non vi era alcun collegamento razionale tra i presupposti errati dell’indagine conoscitiva sull’anima e i risultati della stessa. La dimostrazione scientifica diveniva così per Galeno il ricondurre l’oggetto della ricerca a dei criteri logici e l’obiettivo finale  consisteva nell’accertare le cause  di un fenomeno. (6)

    Galeno distingueva la conoscenza  attraverso la percezione sensibile tipica dei fenomeni naturali come il caldo, il freddo, la luce, il buio, dalla conoscenza intuitiva di tipo più astratto. Anche l’intuizione doveva essere fondata su di una consequenzialità logica e razionale tra ciò che si era ipotizzato e ciò che si era osservato. Un fenomeno oppure un oggetto eguali ad un altro potevano essere identici ad altri simili e via di seguito, attraverso il processo logico  dell’analogia.
Il rapporto tra l’evidenza sensibile e l’evidenza intellettuale era alla base della conoscenza scientifica della realtà. Ogni teoria che si volesse dimostrare come vera doveva essere  provata da osservazioni che la confermassero e trovare fondamento nei principi generali della ricerca da cui si era partiti. (6)
    La conoscenza della natura che derivava da questo rapporto tra quanto fornito dagli organi di senso e la comprensione intellettuale, secondaria all’uso della ragione, doveva sforzarsi di essere  la meno approssimativa possibile. Doveva tendere alla costituzione di una forma di sapere che fosse libera dall’arbitrio della congettura fine a sé stessa fino ad affermare con sicurezza:
 
    “… [la conoscenza deve essere] un teorema universale e solido. Errano pertanto coloro che affermano che l’arte sia congetturale perché dispone di teoremi congetturali. Si dice infatti che l’arte medica sia congetturale non per i suoi teoremi, poiché essi sono stabili, ma per il modo di procedere o praxis e di agire, o enérgeia, di coloro che trattano di medicina.
     Producendo infatti questo modo di operare dei risultati non stabili rende congetturale l’arte stessa, mentre i presupposti di tutte le arti devono tendere a essere egualmente solidi e stabili…”
 
                                                                     Galeno, De methodo medendi, libro I
 
    La dimostrazione di una verità scientifica in campo medico voleva dire scoprire delle relazioni evidenti  tra una causa e un evento patogeno, mentre la presenza di errori e di cure sbagliate, sempre possibili, dipendevano da un non corretto approccio metodologico alla malattia da parte del medico, non dalla presenza di leggi naturali indefinibili o non ancora decifrate. Nell’elaborazione del concetto di causa in medicina e nello studio delle scienze naturali Galeno si ricollegava direttamente ad Aristotele (384-322 a.C.) e alla sua definizione degli eventi causali. Per questo filosofo esistevano in natura cinque tipi di cause diverse, che  descriveremo brevemente per la loro importanza nella comprensione della medicina antica.
    Il primo tipo di causa era quella finale, che si riferiva al perché dell’esistenza di ogni cosa. Questo concetto recava in sé una conseguenza logica importante. Voler attribuire un significato finalistico a un rapporto causale significava presupporre una volontà  che lo avesse determinato e quindi la presenza di un’entità creatrice nella natura. Quest’idea portante sarà alla base di molte dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio che si succederanno nei secoli del Medioevo.
    La sua importanza e contemporaneamente la grande capacità di inquinamento logico era costituita dal porsi come un fattore di ambiguità tra il piano di indagine proprio della fede e quello riservato alla ragione. L’influenza della visione epistemologica di Aristotele e di Galeno avrebbe provocato conseguenze molteplici nella storia del pensiero, sostenendo per prima cosa l’idea di una natura benevola e provvidenziale, creata da Dio in vista di un fine preordinato. Una natura dotata di caratteri materni, amica dell’uomo e riferimento positivo da imitare nei comportamenti esistenziali, come traspariva dal detto vivere secondo natura.
    Il secondo tipo di causa era costituito dalla causa efficiente, cioè in virtù di cosa un determinato evento naturale si verificasse. Si trattava di un’estensione del concetto precedente. Il medico doveva sforzarsi di riconoscere una precisa concatenazione negli eventi naturali e nella sequenza tra la causa e l’effetto nelle malattie. Lo studio della natura assumeva in questo modo una dimensione meccanicistica. Se tutto accadeva in base a rigorose sequenze tra la causa e l’effetto generato allora anche il corpo umano poteva essere immaginato come un insieme complesso di relazioni deterministiche. Diveniva un meccanismo da smontare per essere meglio compreso, perché anche le parti più piccole del corpo potevano fornire la chiave per comprendere il segreto del funzionamento dell’insieme e della vita. Questa visione recava in sé i presupposti dell’ideologia moderna dell’uomo come macchina, che sarebbe stata l’argomento delle opere di Giovanni Antonio Borrelli (1613-1679) e di Julien Offray de La Mettrie (1709-1751) molti secoli dopo. Permetteva di immaginare una misurazione accurata delle azioni e delle reazioni umane che limitasse il pensiero della persona al solo campo biologico.

    Il terzo tipo di causa era quello materiale: da che cosa un evento venisse generato. Il medico doveva focalizzare la propria ricerca sulla sostanza da cui era composto l’evento causale. Era il tipo di casualità più adatto a spiegare il succedersi dei fenomeni  delle scienze naturali e che tendeva a ridurre il condizionamento finalistico sulla materia sostenuto da Aristotele, privilegiando il momento del come accadesse un fenomeno naturale rispetto al momento del perché questo si verificasse. Anche questa modalità di indagine della natura troverà degli eredi importanti. Le sono debitori la scienza del XIX secolo di origine positivistica sostenuta dalle idee di Auguste Comte (1798-1857) e la medicina pratica e sperimentale organizzata e sistematizzata da quella grande figura di scienziato e infaticabile ricercatore che fu Claude Bernard (1813-1878).
    Il quarto tipo di causa era quella strumentale: per mezzo di cosa un evento naturale si manifestava. Questa ipotesi di indagine conoscitiva riguardava la natura dinamica delle malattie. Da parte del medico antico voleva dire entrare nell’osservazione di un evento morboso utilizzando una specie di microscopio psichico non disponendo di uno strumento di natura ottica ancora lontano da venire. Erano studiate delle realtà biologiche in cui agivano sequenze causali locali e collegate tra di loro, scomponendo il divenire del morbo in una serie di tappe, di stadi clinico-biologici privi di ogni riflesso trascendente. Una riduzione dell’orizzonte e del campo di attenzione dell’osservatore di tipo induttivo che avrebbe permesso al medico una più facile comprensione del fenomeno indagato.
    La quinta tipologia di causa era infine quella modale, vale a dire  secondo che cosa un evento si verificava. Si trattava di un tipo di conoscenza caratterizzato da una concatenazione di fattori plurimi che poteva essere aggiunto alle precedenti cause per facilitare la comprensione di un fenomeno naturale. Spesso un evento biologico non appariva come costituito dal verificarsi di una sequenza tra causa ed effetto caratteristica, quanto come l’esito di più cause e di più effetti. Tenendo presente questa possibilità il medico doveva riuscire a contemplare nell’insieme tutte le tappe del processo morboso, dall’inizio sino alla fine, acquisendo una comprensione la più razionale possibile della salute e della malattia, della guarigione oppure della morte.

    Elemento fondatore di tutto il pensiero scientifico di Galeno fu lo sviluppo del concetto aristotelico di causa finale. La natura aveva creato il corpo umano e l’universo  in modo organizzato, in un insieme tale che ogni parte fosse in relazione con le altre e queste con il tutto. Nel caso del corpo umano ogni organo rivestiva una sua specifica funzione e questa era necessaria e trovava una sua giustificazione esistenziale nel rapporto con l’insieme e gli altri distretti dell’organismo. La polemica di Galeno con i sostenitori della filosofia materialistica dei seguaci di Democrito e di Epicuro fu aspra e determinata. (6, 7)
    Questi filosofi avevano negato un fine divino preordinato nella creazione del mondo. La materia per essi giaceva increata nel caos dell’universo primitivo e si era differenziata a partire dai suoi atomi in modo indipendente dalla volontà divina. Quello degli atomisti, discepoli di Democrito di Abdera e degli epicurei era un mondo in cui Dio non trovava una propria ragione di esistere neppure di tipo teorico. La materia giustificava sé stessa attraverso la propria esistenza ed era considerata immortale. Per Galeno invece un fine della natura esisteva e questo era un fine buono e provvidenziale. Ogni cosa era stata generata in virtù di un’artefice che le aveva assegnato un ruolo armonico nel contesto generale del mondo. Le azioni umane erano determinate da una volontà che le guidava altrimenti avremmo dovuto  ammettere che una persona si recasse in un posto non perché avesse deciso di andarvi per portare a compimento un qualunque proposito, ma solo perché avendo dei piedi aveva scelto di appoggiarsi in modo alterno ora su di uno ora su di un altro, avanzando in modo del tutto casuale e senza mete preordinate. (6)
   Il disegno provvidenziale  nell’ordinamento della natura non intendeva affermare la presenza diretta di un'azione divina. La Divinità di Galeno e di Aristotele si muoveva all’esterno del mondo e agiva come un motore immobile lontano dal contesto degli avvenimenti terreni. Questo Essere supremo conferiva alla natura una delega di artefice secondario nell’intervento diretto sulla realtà. L’azione della natura si articolava sul principio della finalità dei fenomeni biologici e dell’organismo umano e questa certezza costituiva per Galeno la base della ricerca scientifica applicata alla medicina. Una medicina che poteva utilizzare un’analisi e una ricerca delle funzioni del corpo di tipo empirico, sempre guidata dall’idea di fondo di un fine verso cui si muovesse l’azione di un determinato organo. Più l’analisi dei fenomeni diveniva accurata, più rispettava questo postulato iniziale e maggiormente sarebbe stato possibile arrivare alla comprensione del fenomeno biologico. (6, 7)


    Galeno era solito utilizzare nelle sue argomentazioni un procedimento dimostrativo per assurdo tipico di una formazione appresa nelle scuole di retorica. Il medico partiva dal presupposto che un determinato organo rivestisse una funzione differente da quella di dominio dell’esperienza per arrivare a dimostrare il ruolo dell’organo stesso. Una funzione che provava come ogni parte del corpo umano esercitasse il compito attribuitogli dalla natura secondo la massima razionalità possibile, tale che non se ne sarebbe potuto nemmeno immaginare uno differente. Il corpo umano era stato pertanto realizzato nel migliore dei modi possibili per forma, dimensione, funzionamento e interazione delle singole parti con il tutto.
    Alla base del rapporto causale in natura esisteva quello che Galeno denominò come il principio di facoltà. Si trattava di un concetto difficile da comprendere se non si teneva conto della spiegazione finalistica che Aristotele aveva introdotto nello studio della biologia. Una visione della natura, quella aristotelica, che avrebbe influenzato per secoli il pensiero umano, migrando  dalle biblioteche del paganesimo agli studium dei conventi e nelle cattedrali delle chiese medioevali. Il passo che segue descrive questo principio:
 
    “… Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali vi è qualcosa di meraviglioso […] Così occorre affrontare senza pregiudizi l’indagine su di ognuno degli animali, perché in ciascuno di essi vi è qualcosa di naturale e di bello. Non è il caso infatti che è presente nelle opere della natura, ma la finalità e questa in gran copia: il fine è ciò in vista del quale esse sono state create o si sono formate ed esso occupa la regione del bello …”
 
                                             Aristotele, Sulle parti degli animali, 645 a, 15-25
 
   Galeno dedicò un intero trattato a illustrare questa concezione della natura, sottolineando con un certo disincanto come lo studio dell’insegnamento dei filosofi e dei medici del passato che avevano reso possibile l’ideazione di tale prospettiva fosse in decadenza e la loro eredità intellettuale venisse destinata a una vita difficile:
 
    “… infatti, chi vuole conoscere qualcosa di vero più profondamente della maggioranza degli altri esseri umani deve essere molto differente da questi, sia per sua natura, che per l’istruzione di base [che dovrà ricevere]. Divenuto ragazzo deve possedere un amore ardente per la verità, come fosse ispirato [dalla sapienza stessa] e deve cercare di apprendere giorno e notte, senza interruzione e con fervore e costanza, cosa hanno detto sull’argomento i più celebri tra gli antichi.
    Appresi i loro insegnamenti, dovrà riuscire a esprimere un giudizio circostanziato su di loro, provare ed esaminare che cosa si accordi con i fenomeni osservati e cosa differisca da essi. Potrà così scegliere i primi e respingere i secondi. A persone con questi interessi confido che il mio libro sarà senza dubbio utile. Purtroppo costoro saranno certamente pochi. Per tutti gli altri questo libro apparirà superfluo, come una favola raccontata ad un asino …”
 
                                                                  Galeno, De naturalibus facultatibus, I
 
    Possiamo descrivere  il concetto di facoltà introdotto da Galeno come un’azione che provocava un cambiamento. Ogni fenomeno era il prodotto di un evento precedente ad esso attraverso una causa specifica e questa forza dinamica prendeva il nome di facoltà. La relazione stretta con ciò che la facoltà produceva costituiva il motivo di un’azione e determinava l’essenza della causa stessa. La nozione di facoltà naturale presentava delle caratteristiche di astrattezza e di tautologia di cui Galeno non si accorse. Tendeva cioè a giustificare sé stessa per il solo fatto di esistere, indipendentemente da una causa che la determinasse. Ignorando quest’ultima complicazione, il medico di Pergamo affermò che compito del curante sarebbe stato quello di rendersi conto della complessità del movimento creatore della natura e di interpretarlo riconoscendolo in ogni tappa del suo sviluppo. Ne sarebbe derivata una comprensione attendibile dei fenomeni biologici e la possibilità di rimediare a quelli dannosi che provocavano le malattie e la morte. (2, 6)
     Galeno si spinse ad analizzare le facoltà naturali nella loro composizione attribuendo a queste le proprietà dei corpi magnetici, vale a dire l’attrazione e la repulsione che gli apparivano come uniche forze in grado di spiegare la complessità del corpo umano. L’organismo venne descritto come un’entità complessa che si autoregolava e che era finalizzata al mantenimento di un equilibrio essenzialmente di tipo statico. Da un punto di vista ideologico quella di Galeno era una visione che escludeva ogni prospettiva di interpretazione evoluzionistica degli esseri viventi. Esseri che venivano creati perfetti attraverso la migliore organizzazione possibile, sia biologica che funzionale delle loro parti e collocati in un equilibrio mirabile tra le opposte forze naturali di attrazione e di repulsione. (2, 6)
    L’intervento del medico avrebbe dovuto favorire il mantenimento di questo stato utilizzando rimedi idonei a contrastare le cause di alterazione. Questa concezione della medicina costituiva la base razionale della teoria dei contraria contrariis, la cura di una malattia attraverso il suo contrario, che eserciterà un’influenza anche sulla moderna farmacologia.

La costruzione razionale di un percorso terapeutico con la fiducia nel poter trovare un rimedio per ogni patologia attraverso la ricerca costituisce l’eredità più importante del pensiero di Galeno, un’eredità che sopravvive ancora oggi. In base ai suoi insegnamenti il rapporto tra l’evidenza sensibile di quanto osservato in natura e l’evidenza intellettuale di quanto appreso attraverso gli studi divenne il fondamento della conoscenza scientifica. Il medico medievale più preparato aveva presente questa relazione perché ogni assunto teorico che egli cercasse di dimostrare doveva essere verificato da osservazioni che lo confermassero e trovare un fondamento nei principi generali della ricerca da cui si era partiti e che gli erano stati trasmessi dalle scuole che aveva frequentato.
Tuttavia, una volta che fossero state appurate le caratteristiche della patologia che affliggeva il paziente l’utilizzo dei singoli medicamenti sarebbe stato di tipo  empirico. (12)

    L’olio di ricino, un lassativo, fu ad esempio considerato un rimedio caldo, mentre il lattice di papavero che conteneva l’oppio un rimedio freddo. Al freddo veniva attribuito l’effetto antidolorifico dell’oppio che poteva anche essere mortale se impiegato in una dose eccessiva la quale avrebbe potuto spegnere il calore vitale.
Tra l’azione del farmaco e la guarigione dalla malattia non esisteva alcuna comprensione fisiopatologica di un rapporto tra causa ed effetto come oggi lo intendiamo. L’essere umano veniva considerato come un sistema complesso, un insieme armonico da riportare al giusto equilibrio rispettando l’interazione tra di loro dei singoli organi e apparati. Si trattava di una visione dell’uomo che conserva intatto il suo fascino, specie in un’epoca come la nostra dominata dall’eccessiva specializzazione medica e dal rifugiarsi dei sanitari in un ambito di conoscenza tecnica in cui viene affermata la prevalenza dell’abilità professionale su ogni altra modalità terapeutica. (7, 14)
    Nei secoli medievali il concetto stesso di malattia, la quale veniva descritta utilizzando il termine latino di infirmitas, prese a rivestire significati anche di tipo positivo. La sofferenza, il dolore e l’alterazione visibile del corpo umano riproducevano le sofferenze del Cristo crocefisso nell’essere del malato. Un malato che diveniva portatore di un duplice ruolo: da un lato testimoniava attraverso la corruzione del proprio corpo la presenza di colpe e di peccati di cui la malattia si faceva manifestazione e conseguenza, dall’altra, attraverso l’imitatio del Cristo sofferente, poteva pervenire alla guarigione dell’anima, più importante di quella del corpo. (12, 14)
  La figura del messia assumeva una duplice caratteristica, quella di medico dell’anima e quella di malato, una divinità che si era fatta carico dell’imperfezione e della sofferenza per donare la salvezza agli esseri umani. Questa interpretazione della morte e della resurrezione del Cristo era già presente nelle opere di papa Gregorio Magno (540-604 d.C.) e continuerà a essere tenuta in considerazione lungo l’arco temporale del Medioevo, come possiamo leggere nel resoconto di un sermone del XIII secolo del cardinale Stefano Langton (1150-1228), arcivescovo di Canterbury. Langton, sostenuto nella sua elezione ad arcivescovo dallo stesso papa Innocenzo III contro il volere del re Giovanni d’Inghilterra, fu tra i maggiori ispiratori dei principi contenuti nella Magna Charta, il documento legislativo che per la prima volta nella storia umana poneva dei limiti al potere arbitrario dei re nei confronti dei propri sudditi e che fu imposto alla firma del sovrano dalla nobiltà del regno aprendo un nuovo orizzonte alle libertà dell’individuo:
 
    “… mortali infirmitati subditis eramus, sed celestis medicus dignitatus est non solum venire ad curandum fetendissimam lepram Humani generis, sed etiam pati eamdem infirmitatem et ex ea mori …“
 
    [“… eravamo sottomessi a una malattia mortale, ma il medico celeste si degnò non solo di venire a sanare l’orrenda piaga del genere umano, ma anche a soffrire e a morire per questa stessa ragione …”]
 
                                                                           da Stefano Langton, Sermones
 
    La principale modalità curativa della medicina medievale risultava la pazienza, la quale veniva insegnata e perseguita attraverso una vera e propria pedagogia della sofferenza, utile a sopportare con cristiana rassegnazione le infermità e le malattie. Le piaghe del corpo erano in grado di salvare l’anima dell’uomo mortale e peccatore attraverso il potere redentore del dolore e il superamento della condizione di debolezza della carne. La medicina alto medievale praticata nell’Occidente europeo non disponeva di grande capacità terapeutica e non era  alla portata di tutti per la precarietà della vita quotidiana, destabilizzata da secoli di guerre, invasioni barbariche, carestie ed epidemie. Tutte queste calamità assumevano nell’immaginario degli uomini di quel periodo le connotazioni di punizioni divine per colpe di cui non era dato conoscere i significati e le effettive relazioni con le proprie azioni. (4, 12)
    Considerata la fiducia nella teoria degli umori, il comportamento migliore da tenersi per il medico consisteva nell’evitare che si verificasse l’accumulo di uno qualsiasi dei quattro umori fondamentali nel malato,  oppure in alternativa nel procedere all’evacuazione degli stessi in eccesso. Anche una vita equilibrata e una dieta appropriata potevano contribuire al mantenimento del giusto equilibrio. Vennero pertanto codificate alcune tecniche di eliminazione degli umori che potevano interessare il canale digestivo attraverso l’utilizzo di emetici in alternativa ai lassativi e ai purganti. Anche i diuretici venivano utilizzati a scopo di purificazione, ma il rimedio più frequentemente praticato per l’eliminazione degli umori dannosi era costituito dal salasso. (4)
    Veniva incisa una vena usando un flebotomo con l’intento di ridurre la quantità di sangue destinata all’organo ammalato o interessato di riflesso dalla patologia. Un’altra tecnica molto comune era quella che prevedeva l’impiego delle sanguisughe. Alla base teorica di tale procedura vi era l’idea della circolazione sanguigna elaborata da Galeno. Questi aveva sentenziato che le vene servissero a trasportare il sangue originato dal fegato e ricco di sostanze nutritive a tutti gli organi del corpo dove veniva destinato al buon funzionamento degli apparati. Il salasso poteva eliminare il sangue in eccesso che ostacolava la corretta funzione degli organi malati riportandoli al giusto equilibrio.
    La vera dinamica della circolazione sanguigna rimase sconosciuta fino alle intuizioni e agli studi di William Harvey (1578-1657) sul ruolo di pompa del cuore, con la distinzione tra la circolazione polmonare e quella generale. Tuttavia, anche dopo questa scoperta il salasso continuò ad essere praticato abitualmente per almeno altri tre secoli ricorrendo a interpretazioni di tipo idraulico e meccanico per giustificarne la necessità. Nella medicina di Galeno venivano adottati in casi estremi due interventi di tipo cruento per eliminare gli umori cattivi. Si trattava dell’ulcera da ustione e della corda di crine o setone. Erano procedimenti invasivi che godettero di una larga diffusione medievale e perfino rinascimentale. L’ulcera, tenuta aperta a lungo artificiosamente dopo essere stata provocata con un cauterio, sarebbe dovuta servire a espellere alla superficie del corpo gli umori patogeni. La corda di crine, che veniva innestata brutalmente con un ago nello spessore della cute della nuca, costituiva un tramite all’espulsione di  sostanze tossiche che sarebbe avvenuta per gemizio lungo la corda durante periodi di settimane, a volte per interi mesi. Un tempo considerevole durante il quale il malato non avrebbe potuto liberarsi di tale doloroso e inutile ornamento. (3, 11)

    In queste procedure di eliminazione degli umori dannosi i medici medievali potevano rifarsi a un modello naturale. Secondo le loro convinzioni la natura stessa liberava quotidianamente il corpo umano da scorie e sostanze tossiche attraverso le diverse  secrezioni. La febbre, che era considerata correttamente un meccanismo di difesa secondo una visione moderna del problema, provocava il bollore o pepsis della materia patogena e la sua espulsione attraverso il sudore. Anche le emorragie spontanee, come quelle emorroidarie, erano ritenute benefiche. Nel caso queste fossero cessate improvvisamente si poteva temere che  ne derivasse una conseguenza negativa come un accumulo di sangue in qualche diversa parte del corpo. Un ingorgo ematico da cui si sarebbe potuta originare una malattia grave come un ictus apoplettico.
    Un’altra modalità che si pensava fosse utilizzata dalla natura per liberare l’organismo dalle sostanze dannose era costituita dalla formazione di raccolte ascessuali o di eruzioni cutanee. L’incisione di queste portava ad una evacuazione degli umori corrotti, anche se riguardo al drenaggio chirurgico degli ascessi le vedute dei medici di quei tempi non erano univoche. Favorevoli al drenaggio erano i medici arabi, mentre in Occidente l’evacuazione del materiale purulento non fu approvata dalla filosofia scolastica del XIII secolo. Non si deve però credere che una condotta aggressiva attraverso l’utilizzo di tecniche cruente come quelle che abbiamo appena descritto costituisse la regola. (4, 11)
    Il repertorio terapeutico del medico si era comunque arricchito dopo le crociate e il contatto con i medici orientali. Si basava sulle regole stabilite e codificate da Aulo Cornelio Celso nel suo trattato De Medicina di cui abbiamo in precedenza raccontato. Nella prefazione di questo libro Celso aveva distinto le possibilità terapeutiche al servizio del medico in tre grandi tipologie di intervento: la dietetica, la farmaceutica e la chirurgia. (8)
    La dietetica era basata sulla prevenzione delle malattie attraverso un comportamento morigerato a tavola e nel seguire alcuni corretti stili di vita. Era incentrata sull’individuo, a differenza di quanto avviene oggi con la moderna medicina preventiva che elabora le proprie direttive attraverso lo studio del comportamento delle comunità e l’analisi statistica delle modificazioni di tali abitudini. La persona che seguiva un comportamento salutare non doveva dimenticare di essere coerente in qualsiasi momento della giornata. Il medico lo avrebbe ricordato al paziente e lo avrebbe interrogato con disponibilità di tempo. Potevano essere fedeli a questi precetti solo gli individui ricchi e con la possibilità di adattare gli avvenimenti della loro esistenza alle disponibilità materiali cui erano in grado di far ricorso. (3, 4)

    La farmaceutica comprendeva  la conoscenza delle sostanze medicamentose e la loro produzione e combinazione. Consisteva nell’attività che oggi è propria del farmacista e nella ricerca sull’effetto dei farmaci e la loro applicazione al malato, un campo più legato al lavoro del medico. L’espressione greca pharmakon stava a significare inizialmente sia la pianta officinale che il farmaco, come pure un amuleto salvifico o un veleno. Questa parola rivelava due aspetti caratteristici della medicina antica indicandone la radice magica e quella empirica. Per i medici antichi non vi era teoricamente una penuria di farmaci. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) aveva dedicato ben otto libri della sua Naturalis Historia esclusivamente alle virtù terapeutiche delle piante, mentre il più importante farmacologo dell’antichità fu il già ricordato Pedanio Dioscoride. I medici greci e romani non si limitavano all’impiego di sostanze semplici (simplicia), ma utilizzavano in terapia anche sostanze composte (composita) ottenute mescolando vari ingredienti di origine animale, vegetale e minerale. (4)
    Le mescole più sofisticate erano certamente gli antidoti, come il mithridiacum e la teriaca. Questi intrugli fantasiosi erano ricavati dosando e mescolando tra di loro molte sostanze, spesso di formulazione segreta. Venivano utilizzati ingredienti alquanto stravaganti, come la carne di vipera per la teriaca. Da notare che la teriaca, inventata pare da Andromaco, il medico personale dell’imperatore Nerone (55-68 d.C.), era considerata indispensabile in molte situazioni morbose e continuò a essere prodotta fino alla fine del XVIII secolo seguendo una procedura precisa e uno speciale controllo di qualità esercitato da appositi organi statali, come avveniva nel granducato di Toscana. (4, 5)
    Sempre nel De Medicina Celso stabilì i campi d’azione del medico  e del chirurgo. La chirurgia comprendeva i casi in cui la malattia non provocava lesioni sulla superficie del corpo, ma andava praticata per facilitare la guarigione. Erano di competenza chirurgica anche le ferite e le ulcere che dovevano essere curate dalla mano dell’uomo, come pure le fratture delle ossa, per le quali vennero escogitati sistemi di intervento sofisticati attraverso l’impiego di complicati macchinari di trazione degli arti. Il medico fisico, il generalista, come potremmo chiamarlo con un termine odierno di impronta anglosassone ed europea, poteva e doveva invece occuparsi di tutto il resto. Senza dimenticare di essere anche un filosofo che cercava di comprendere la natura attraverso lo studio e la riflessione speculativa oltre la propria conoscenza diretta. Il medico efficace nella terapia sarebbe stato sostenuto da una disciplina e formazione richiesta dalla propria corporazione e da alcuni presupposti etici senza i quali il suo lavoro sarebbe risultato privo di autorevolezza. (12)
    Nell’Europa dell’XI e XII secolo che usciva faticosamente da lunghi periodi di miseria e di durezza dell’esistenza quotidiana il centro della vita cittadina era la cattedrale o chiesa capitolare. Sotto la direzione dei vescovi, che risiedevano nel palazzo vescovile quasi sempre contiguo, vennero create le prime scholae annesse alla cattedrale. In questi ambiti si insegnavano le arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Queste arti costituirono per secoli la preparazione di base per chi doveva accedere agli studi superiori. Le scholae furono anche il nucleo da cui derivarono le università moderne. Intorno alla fine del XII secolo l’università di Parigi divenne la più prestigiosa delle sedi di studio. Nelle sue facoltà superiori, quelle di medicina, diritto e teologia, avvenivano i confronti culturali più vivaci e insegnavano i docenti più prestigiosi del tempo. (15, 16)

    In queste università la visione e l’insegnamento della medicina come arte, o tecne in greco antico, applicazione cioè di una conoscenza pratica alla realtà del malato attraverso la ragione e l’esperienza, venne conservata e perpetuata. Lo stesso metodo sperimentale del XVII secolo ne utilizzerà il pragmatismo che ne costituiva la qualità principale, sebbene condizionata dall’eccessivo rispetto per l’insegnamento aristotelico e galenico.
Lo studente medievale prima e il medico poi non potevano pensare di accostarsi alla loro attività professionale senza avere studiato i fondamenti della logica. Questa era la materia che costituiva la base di ogni modalità di apprendimento. Se vogliamo darne una definizione facilmente comprensibile per il lettore moderno, suggestionato dalla comunicazione di massa contemporanea, potremmo definire la logica medievale come la disciplina che esaminava la verità oppure la falsità di una proposizione parlata oppure scritta. (16, 17)
    Attraverso gli strumenti culturali che era costretto ad apprendere e utilizzare, basati sul rigore e un’acuta attenzione a come i concetti fossero stati articolati ed espressi, il medico medievale acquisiva una conoscenza raffinata delle opere dei maestri del passato dei quali era consentito elaborare gli insegnamenti e commentarli, ma in nessun modo metterne in dubbio la veridicità. Pensare a qualcosa di diverso da una concezione finalistica della natura sarebbe stato come mettere in dubbio l’esistenza di Dio e minare così alla base le fondamenta della struttura sociale di quel mondo. La medicina delle università medievali venne pertanto strutturata su quattro precisi livelli epistemologici, vale a dire di metodologia della conoscenza scientifica e di conseguente sapienza operativa.
     Per prima cosa una pars teorica, ovvero lo studio dei testi ammessi dalle autorità ecclesiastiche, depositarie della liceità della lettura dei volumi. Seguiva la pars pratica, costituita dall’esperienza acquisita  sotto la guida  di un magister della medicina e la scienza operativa, vale a dire la consapevolezza dei rapporti esistenti tra la teoria degli antichi e l'indagine quotidiana sul malato. Infine si perveniva all’opus, l’intervento specifico sul paziente attraverso la formulazione di una diagnosi e di una terapia. Il medico che usciva dalle università poteva utilizzare l’autorità e il prestigio conferitogli dal titolo di studio.
Diveniva depositario di un sapere che sarebbe stato determinante in possibili diatribe e avrebbe relegato in una nicchia sociale cerusici, ciarlatani e guaritori. La sua formazione, articolata e complessa, sarebbe restata pressoché immutata fino al XVII secolo. (3, 15)

    I fondamenti della medicina di Età classica di origine greca e romana vennero trasmessi al mondo bizantino. Esisteva a Bisanzio una seconda importante fonte di influenza e di cultura relativa alla medicina che era costituita dalla medicina araba. Per meglio comprenderla dobbiamo fare riferimento ad alcuni precetti contenuti nel Corano e al loro influsso sulla medicina praticata dagli arabi. Per il Corano ogni scienza non era che una possibilità data all’uomo di avvicinarsi alla comprensione dell’unico essere veramente importante: Allah. Alcune delle sure, i capitoletti in cui è diviso il Corano, ci forniranno degli spunti di riflessione importanti. Caratteristica essenziale della ricerca scientifica ed epistemologica del mondo islamico medievale era il sincretismo, la capacità di assimilare diverse fonti di conoscenza senza respingerle a priori solo perché elaborate in un contesto storico, religioso e ideologico differente. Per comprendere questa capacità, bisogna rifarsi al Corano e al concetto del tawhîd o unicità di Dio in esso contenuto. (18)
    Recita infatti il Corano nella sua CXII Sûrah (uno dei 114 capitoli del libro sacro):
 
    “… Egli, Dio, è uno; Dio, l’Eterno. Non generò e non fu generato e nessuno Gli è pari …” (18)
 
    Un fondamento stabile e sicuro alla comprensione della realtà permetteva di approfondire molti aspetti delle scienze umane senza paura di essere tormentati dai dubbi. Ne conseguiva una modalità di studio del mondo per rinvenire i segni della volontà e del disegno di Dio.  Il Corano stesso invitava alla conoscenza della natura considerata come una manifestazione dell’opera di Dio:
 
    “… in verità, nella creazione dei cieli e della terra e nell’alternarsi del giorno e della notte vi sono segni per quelli che hanno sano intelletto …”
 
                                                                                 Il  Corano, Sûrah III, 190 (18)
 
Veniva inoltre ribadito in un altro passo la caratteristica di testimonianza naturale dell’operato divino presente nel mondo:
 
    “… Iddio ha rivelato il racconto più bello, un libro di allegorie, testi all’ascoltare i quali rabbrividisce  la pelle di quelli che il loro Signore paventano e poi s’addolcisce la pelle loro e i loro cuori, nell’udire il nome di Dio …”
 
                                                                           Il Corano, Sûrah XXXIX, 23 (18)
 
    Ricordandosi, in ogni caso, di tenere  sempre presente la necessità di un abbandono fiducioso alla misericordia divina che rimaneva arbitra di ogni azione dell’uomo:
 

  “… O Credenti, quando vi si dice: «Fate spazio [agli altri] nelle assemblee», allora fatelo: Allah vi farà spazio [in Paradiso]. E quando vi si dice: «Alzatevi», fatelo. Allah innalzerà il livello di coloro che credono e che hanno ricevuto la scienza. Allah è ben informato di quel che fate …”
 
                                                                                Il Corano, Sûrah LVIII, 11 (18)
 
    Il Corano poneva dei termini ben precisi alla volontà di dominio dell’uomo sul mondo. Allah era un Dio onnipotente che non era limitato altro che dalla propria volontà. Tutto il cosmo doveva apparire ai fedeli come il libro di Dio e dunque le scienze che lo studiavano e lo interrogavano non facevano altro che avvicinarsi alla conoscenza dell’Uno. Una gerarchia delle scienze si divideva il sapere umano. Era un sapere che aveva lo scopo il condurre verso l’Essere supremo attraverso una progressiva importanza delle nozioni che si apprendevano studiando la natura. L’uomo di scienza arrivava a una visione della realtà di tipo finalistico. Una considerazione del sapere scientifico simile alla visione cristiana della Reductio artium ad theologiam (Riconduzione delle arti alla teologia). Un’idea che era caratteristica del pensiero di filosofi come S. Agostino e S. Bonaventura da Bagnoregio. (19)


    Seguendo un’interpretazione trascendente del mondo e della natura era possibile distinguere nel pensiero scientifico del medioevo arabo tre diversi piani di conoscenza: un piano sperimentale e osservativo, un piano razionale di tipo  speculativo e infine un livello di comprensione della natura di carattere gnostico, basato su di una verità rivelata. Nonostante queste premesse teoriche la medicina araba era di carattere eminentemente pratico, permeata da un empirismo di singolare modernità. Pensiamo ad esempio all’introduzione nell’armamentario del medico della pulizia chirurgica delle ferite purulente. Questa pratica non era di solito effettuata nell’occidente medievale, dove si lasciavano andare in putrefazione le ferite pensando a un effetto positivo di questo processo, mentre i medici europei che seguivano le crociate appresero dagli arabi la necessità e la tecnica per detergere con cura le piaghe. (16, 20)
    La riflessione filosofica sulla conoscenza del mondo naturale rimase per i musulmani su di un piano secondario rispetto al momento applicativo dell’arte medica. Il pensiero scientifico di due tra i medici orientali più celebri,  Abû Bakr Muhammad Ibn Zakariyyah ar-Râzî, in latino Razhes, (864-930 d.C., circa) e Abû Alî al-Husayn Ibn Sînâ, conosciuto in Occidente come Avicenna (980-1037), ci farà comprendere  questa visione della medicina. (18, 20)
    Avicenna fu una figura unica di medico e di pensatore. Originario dell’odierno Uzbekistan, era nato infatti a Bukhara, divenne il più celebre e ammirato medico del tempo già in giovane età. Il suo Canone di medicina era ancora letto e studiato all’inizio del XVIII secolo nelle università europee più importanti, come quella francese di Montpellier. Eppure la medicina rimase per Avicenna solo uno degli interessi. La sua ambizione intellettuale maggiore era costituita dalla filosofia e in essa si occupò della conoscenza, della metafisica e della psicologia, disciplina quest’ultima che veniva  intesa come lo studio delle modalità di comprensione della mente umana. Cercò di conciliare l’influenza del mondo trascendente di origine platonica con la razionalità e l’efficacia della visione aristotelica, presupposti indispensabili per affrontare i problemi posti dalla pratica medica e dall’incontro con la malattia e la sofferenza umana. In Razhes e Avicenna convivevano le diverse prospettive dell’indagine scientifica del mondo musulmano. Il loro pensiero oscillava da un estremismo razionale, che portava  Razhes a dubitare della stessa fede religiosa, fino a un tentativo di spiegare la conoscenza scientifica come un accordo tra la tradizione greca e la rivelazione coranica, tipico del pensiero di Avicenna. (18)
    Il dibattito tra i sostenitori dell’aderenza a una filosofia che avrebbe potuto armonizzarsi con gli insegnamenti del Corano e coloro invece che appoggiavano una visione della natura derivata dalle idee di Aristotele si protrarrà tra gli intellettuali musulmani per tutto il Medioevo. I primi appartenevano alla scuola Ash΄arita, una corrente di pensiero nata nel IX secolo ad opera di Abû’l-Hasan al-Ash΄arî. Questi filosofi sostennero una sintesi  tra la tradizione coranica basata sull’assoluta onnipotenza di Dio e l’atomismo greco di Democrito ed Epicuro. Come per i loro predecessori greci la realtà materiale consisteva nella presenza di una serie infinita di atomi indivisibili la cui interazione dava vita alla sostanza delle cose. I filosofi arabi si distaccarono però dalla visione agnostica che troviamo in Democrito ed Epicuro e che collocava gli dei lontani dalle cose del mondo.
    Nell’atomismo degli arabi gli atomi e il loro destino o accidente venivano creati di continuo da Dio per un suo imperscrutabile volere. Queste piccolissime particelle esistevano per un istante soltanto, dal momento che la loro creazione era avvenuta dal nulla (ex nihilo) e si manifestava senza sosta modellando continuamente la realtà secondo l’onnipotenza divina. A ogni accidente corrispondeva un accidente opposto, come morte/vita, bene/male, caldo/freddo, ecc. Non era presente alcun legame diretto tra questi diversi fenomeni perché il volere divino era l’unico arbitro della loro successione. (18)
    Le conseguenze di queste sequenze imperscrutabili e libere da ogni condizionamento erano molto forti. Anche se  era possibile trovare una certa regolarità nel succedersi degli accidenti, Dio poteva in qualsiasi momento infrangere questa regola e sostituire una sequenza di accidenti con un’altra. L’intervento divino rivestiva le caratteristiche del miracolo, vale a dire che poteva consistere in una semplice variazione nella sequenza temporale delle cose, priva di ogni connotazione causale. Tutto ciò che era pensabile dalla mente di Dio diventava, sic et simpliciter, possibile e ammissibile.
    Questa negazione del principio di causalità venne fatta propria da una parte importante del pensiero islamico e per molti filosofi e medici assunse le caratteristiche di un articolo di fede. La sequenza tra causa ed effetto venne sostituita da quella di connessione degli accidenti. Questa relazione si muoveva sul piano del volere divino che ordinava e disponeva ogni cosa.
Comprendere la natura attraverso lo studio delle cause dei fenomeni, utilizzando magari un metodo sperimentale, poteva essere tacciato di eresia.
Una forma di eresia che venne definita come eresia delle cause secondo alcuni teologici musulmani, perché costituiva un'interpretazione blasfema dell’imperscrutabile volontà di Dio. Lo scienziato eretico avrebbe ridotto la decisione divina alla capacità di comprensione dell’uomo. (18)

    A questa visione religiosa dell’interpretazione del reale e dello studio della natura basata sull’abbandono all’onnipotenza di Allah e alla sua unicità si contrappose una diversa interpretazione dei pensatori musulmani più sensibili alla logica e agli insegnamenti aristotelici. Gli esponenti più importanti di questa corrente furono in epoche diverse Avicenna e un altro filosofo a lui posteriore, Ibn Rushd, il cui nome venne latinizzato dagli occidentali in Averroé (1126-1198). Le idee di quest'ultimo si diffusero con successo in Europa conquistando i pensieri di molti professori delle università. I due filosofi musulmani ritennero che la saggezza degli antichi filosofi greci fosse un’eredità preziosa trasmessa agli uomini dall’antichità e si sforzarono di armonizzare il pensiero classico con la rivelazione coranica. Avicenna, che era più portato alla mediazione, risentì maggiormente degli influssi legati alla sua fede religiosa, forse derivati dalla  vicinanza relativa al mondo scîta. Elaborò una metafisica complessa, nonostante come medico fosse favorevole a una modalità  empirica di intervento sulla natura. Nel tentativo di conciliare la filosofia greca con l’Islâm Avicenna immaginò una propria concezione della scienza di tipo neoplatonico supportata dalla mistica. Attraverso la religione si perveniva alla consapevolezza dell’influenza divina come ragione ultima del tutto. (17, 18)

    Maggiormente basata sulla ragione fu la posizione di Averroè (1126-1198). Studioso e commentatore di Aristotele, Averroè visse nel califfato di Cordova nella Spagna musulmana. Studiò medicina, scrivendo un trattato dal titolo di Liber universalis de Medicina, una specie di enciclopedia medica. Si dedicò in seguito agli studi filosofici attraverso i quali fu conosciuto in Occidente, dove influenzò un gran numero di pensatori e di letterati tra cui S. Tommaso d’Aquino e buona parte degli insegnanti della più importante università europea, quella di Parigi. La polemica sul pensiero di Aristotele e sull’importanza che questo filosofo attribuiva alla ragione umana come strumento conoscitivo investì il mondo culturale musulmano con circa un secolo di anticipo rispetto a quello cristiano.
    Gli arabi infatti attraverso i loro contatti con il mondo bizantino erano venuti a conoscenza da tempo delle opere di Aristotele dedicate allo studio dei fenomeni naturali. Libri che erano rimasti completamente ignorati in Occidente. Celebre è la confutazione operata da Averroè degli scritti del teologo e mistico persiano Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111) che aveva scritto un violento attacco alla pretesa dei filosofi greci e di  quelli arabi seguaci di Aristotele di comprendere il mondo attraverso l’uso della sola ragione. Il libro di Al-Ghazâlî dal titolo eloquente di La distruzione o l’incoerenza dei filosofi venne criticato da Averroè con un’opera altrettanto esplicita, cui egli diede il nome di La distruzione della distruzione dei filosofi. Ancora una volta fu sul concetto di causa che si giocò tutta la partita dello studioso delle scienze della natura nei confronti del teologo. Al-Ghazâlî aveva sostenuto l’assoluta ed esclusiva autorevolezza del Corano, da lui definito come un Oceano senza fine o Bahr muhît. (18)

    Il libro sacro doveva rivestire una funzione di strumento ideologico capace d’indirizzare la conoscenza scientifica della realtà materiale. Similmente a come venne fatto in Europa alcuni secoli dopo da parte della chiesa cattolica contro Galileo utilizzando alcune parti della Bibbia vennero adoperati strumentalmente dei passi di un altro libro sacro, il Corano, per contrastare le ipotesi scientifiche sgradevoli al potere religioso. La polemica di Al-Ghazâlî contro i filosofi della natura fu radicale. Secondo questo teologo le scienze non valevano nulla da loro stesse perché il fine ultimo della  conoscenza non doveva essere altro che la ricerca di Dio, un essere  dotato di infinita sapienza. Rendersi conto di questo era la base per arrivare alla consapevolezza della trascendenza del divino, unica opportunità che avesse valore per la salvezza dell’uomo e della sua anima. Per dimostrare quest’asserzione Al-Ghazâlî ricorse a sottili argomenti logici che padroneggiava da filosofo esperto più che da mistico. Esemplare fu la sua critica alla matematica, accusata di distrarre le menti più semplici portandole a sopravvalutare le certezze della ragione  attraverso una modalità conoscitiva che non poteva  competere con l’assoluta certezza della verità rivelata dalla fede in Dio. La medicina invece era una scienza che rivestiva un carattere positivo perché studiando il corpo umano onorava e illustrava la perfezione degli intenti divini. (18)

    Averroè si pose in una posizione di aperta antitesi a queste idee. La sua difesa della conoscenza scientifica e del patrimonio ereditato dalla filosofia aristotelica fu determinata. Rivelazione divina e filosofia si muovevano su due piani diversi. La filosofia apparteneva agli uomini dotati di maggiore intelligenza e cultura che la utilizzavano per analizzare il senso nascosto della creazione e della volontà divina la cui interpretazione letterale più diretta era invece riservata alla tradizione e alla credenza popolare delle persone semplici. A sostegno di questa posizione che offriva una scappatoia a tanti intellettuali del tempo desiderosi di poter diffondere liberamente i loro pensieri senza il rischio di venire perseguitati come eretici, verrà formulata in Occidente la Teoria della doppia verità. Una forma un po’ ipocrita di discriminazione culturale tra le élite e il popolo. La scienza, affermò Averroè, era il solo procedimento oggettivo per comprendere la natura. La verità scientifica racchiudeva in sé le ragioni profonde della propria esistenza perché era uno specchio della scienza divina. La certezza che promanava dalla conoscenza razionale delle cose era obiettiva e la sua evidenza ne giustificava l’esistenza. In questo modo il rapporto tra causa ed effetto diveniva una sintesi necessaria, un fondamento ineliminabile della razionalità del mondo e dell’uomo che lo studiava.

    La scienza di Averroè si poneva come una necessità, un piano di lettura indispensabile del cosmo che testimoniava la presenza di Dio, origine di ogni causa. Con la scienza diveniva possibile comprendere la materia, un’entità priva di forma preordinata e modellabile. L’origine di ogni oggetto materiale era il movimento, un processo eterno e continuo costituito da un’azione o causa che precedeva l’effetto. Dio era esterno a tutto questo fluire della materia nelle sue innumerevoli forme poiché era la causa prima, il motore immobile presente nella filosofia della natura del grande Aristotele. (18)
    La visione di Averroè di una scienza imparziale e necessaria, la sua promessa di una chiave razionale che permettesse di aprire la serratura della porta che dava ingresso alla comprensione del creato affascinò numerosi filosofi europei del Medioevo. Nel mondo musulmano rimase però un’esperienza destinata a essere lentamente accantonata. La visione della realtà alla luce della fede divenne quella ritenuta più autorevole in una società in cui la legge coranica rivestiva il ruolo di fonte stessa del diritto. In contesti sociali e politici particolari come quelli dei musulmani scîti l’approccio mistico alla conoscenza rivestì un ruolo ancora più importante. A questo lento e determinante cambiamento di rotta non furono estranee le crociate. Per circa due secoli, dal 1096 al 1291, la presenza armata e minacciosa di cristiani occidentali in Medio-Oriente costituì un richiamo a un’unità ideologica prima che politica dei musulmani. Ogni tentativo di armonizzare i due mondi venne abbandonato per spostare il confronto religioso su di un piano di contrapposizione radicale culturale, oltre che militare.
    Le conseguenze storiche di queste scelte misero un’ipoteca importante sullo sviluppo scientifico di quella parte del mondo. Basti pensare all’arretratezza tecnologica relativa che afflisse per lunghi periodi un gigante politico come l’Impero Ottomano, che iniziò ad utilizzare la stampa solo nel XVIII secolo inoltrato. Prevalse in Oriente una visione critica della scienza, una valutazione che rigettava in parte il modo d’intendere la conoscenza del mondo ormai propria degli europei, i discendenti degli odiati crociati che avevano insanguinato per secoli quelle contrade. Tuttavia Bisanzio continuò ad essere per tutta la sua vita di città greca, fino alla caduta in mano ai turchi il 29 maggio del 1453, un ponte e un tramite tra Oriente e Occidente.  Due universi che dipendevano l’uno dall’altro senza avere il coraggio e la generosità di ammetterlo. (18, 20)
    Si è cercato di definire le caratteristiche di una scuola medica bizantina senza in realtà riuscirvi completamente. Nei primi secoli dopo la fondazione di Costantinopoli, avvenuta nel maggio del 330 d. C., l’esercizio della medicina fu dominato dalla figura di alcune personalità d’eccezione, medici che seppero unire una grande abilità professionale alla capacità di utilizzare le conoscenze del passato e di insegnarne di nuove e originali da loro introdotte nella pratica medica. Descriveremo brevemente queste personalità che hanno superato i limiti temporali del loro mondo.
    Oribasio Sartiano nacque intorno al 325 d. C. a Pergamo, come Galeno. Studiò medicina sia in patria che ad Alessandria d’Egitto. La sua esistenza fu segnata dall’amicizia e dalla vicinanza all’imperatore Giuliano l’Apostata (355-363 d. C.) che lo volle con sé nei momenti determinanti del suo regno come consigliere, oltre che come medico personale. Oribasio sostenne la visione ideologica e riformatrice del giovane imperatore che aspirava a restaurare il paganesimo anche per reazione all’intolleranza religiosa e al settarismo che animava i cristiani. La sua famiglia era stata infatti sterminata quasi per intero dal cugino Costanzo II (337-361 d. C.), cristiano e aderente all’eresia ariana, un personaggio ambiguo e crudele figlio ed erede di Costantino I il grande, l'imperatore che aveva protetto e favorito l'affermazione del cristianesimo e che aveva emanato nel 313, insieme al collega Licinio,  l’Editto di Milano. Con questo documento imperiale era stata concessa la libertà di culto agli abitanti dell’impero e legalizzata di fatto la religione cristiana.

     Relegato da ragazzo in una fortezza della Cappadocia e affidato all’educazione del retore e filosofo Mardonio, Giuliano era cresciuto imbevuto degli ideali legati della cultura pagana che il suo precettore ammirava e gli additava come gli unici degni di onore e rispetto. Aveva dovuto assistere all’uccisione del fratellastro maggiore Gallo, anche lui da  parte di Costanzo. Giuliano era stato  in seguito richiamato alla corte di Milano per essere rivestito nel novembre del 355 d. C. della porpora imperiale di cesare ed essere inviato nelle Gallie a fronteggiare l’invasione degli Alamanni. Oltre le Alpi e nella battaglia di Argentoratte (Strasburgo) era avvenuto il miracolo. Il giovane filosofo si era trasformato in un abile condottiero e gli Alamanni erano stati respinti con gravi perdite. Il prestigio acquisito sul campo aveva reso Giuliano un concorrente alla carica più importante, quella di augusto. La guerra tra i due parenti scoppiò inevitabile, ma una malattia improvvisa e la morte di Costanzo nel 361 d. C. avevano dato la vittoria al giovane Giuliano che ottenne il potere assoluto conservando nel proprio cuore il risentimento verso una religione trionfante, il cristianesimo, che predicava l’amore per il prossimo e manifestava invece nella realtà la più totale intolleranza ed esclusione per coloro che rifiutavano di omologarsi al suo credo. (1)
    Durante la successiva guerra contro i persiani, il nemico di sempre dei romani,  Oribasio assistette alle ultime ore di vita di Giuliano ferito mortalmente al fegato da un colpo di lancia nel giugno del 363 in un’assolata pianura della Mesopotamia. Si trattò di un episodio oscuro che ha fatto supporre la presenza di un complotto da parte dei molti ufficiali cristiani presenti nello stato maggiore dell’esercito romano che volevano eliminare lo scomodo imperatore paganeggiante. Nell’estremo tentativo di salvare Giuliano è opinione comune che Oribasio abbia applicato un’audace tecnica chirurgica di gastrorrafia, con la legatura delle arterie addominali recise dalla lancia del traditore,  una modalità operatoria molto sofisticata per quei tempi. Di sicuro la sua presenza accanto all’imperatore nelle ultime ore di vita è riportata da numerosi racconti,  sia storici che romanzati. Si trattò per Giuliano di una lenta agonia segnata dall’attesa consapevole della fine e dalla delusione per aver fallito nel realizzare il proprio sogno di restauratore di un passato ormai irrecuperabile. (21, 22)


    Rientrato a Costantinopoli dopo la pace con i Persiani, l’adesione di Oribasio al paganesimo idealistico dell’imperatore defunto gli costò l’esilio. Questo fu decretato dai successori di Giuliano, i fratelli Valentiniano e Valente. Oribasio venne richiamato in seguito a corte grazie alla sua abilità  di medico e poté recuperare i beni e gli onori che gli erano stati sottratti. Si dedicò alla raccolta e alla conservazione delle opere dei medici  del passato secondo le modalità che saranno proprie dei grandi eruditi bizantini dei secoli seguenti capaci di spaziare in  molteplici campi del sapere.
    Oribasio fu autore di una vasta opera di compilazione e di erudizione medica in settanta libri, la Synagoge, che riuniva i più famosi testi medici dell'antichità ordinati in modo da formare un trattato organico. Scrisse anche un compendio di medicina in nove libri dal titolo di Synopsis e un altro più divulgativo in quattro libri, l’Euporista, dedicato agli eruditi che volessero acquisire alcune nozioni di medicina pratica. Una curiosità che si trova in uno di questi lavori è costituita dalla descrizione degli effetti della canapa indiana di singolare modernità ed efficacia (Synopsis, IV, 20, 31). Oribasio morì a Costantinopoli nel 403 d. C. circondato da unanime stima e considerazione. (1)
    Ezio d’Amida nacque all’inizio del VI secolo (502-575 d. C.) in una città che era stata una roccaforte romana a lungo contesa nelle interminabili guerre contro i persiani e teatro di un cruento assedio nel 350 d.C. descritto con ricchezza di particolari nelle sue Storie da Ammiano Marcellino. Questa città oggi porta il nome di Diarbékir e sorge in territorio turco sulle rive dell’alto Tigri, in una regione celebre per la fertilità del suolo.  Ezio studiò medicina nella Bisanzio dell'imperatore Giustiniano (527-565 d. C.), arrivando al titolo ambito di medico di corte. Scrisse una Summa Medicinae in sedici libri, divisi in quattro parti. Questa ripartizione fece prendere al trattato il titolo di Tetrabyblon. (1, 23)
    Si trattava di un tentativo ambizioso di riassumere il sapere medico dei maestri che l’avevano preceduto. Un sapere che Ezio arricchì di note ed esperienze personali che lasciavano intuire come l’autore avesse praticato buona parte di ciò che descriveva e l’avesse sottoposto a un’approfondita valutazione critica personale. I suoi contributi di maggiore originalità riguardarono la farmacologia degli stupefacenti a cui diede un grande impulso, sostenendo l’introduzione nella cura di molte patologie dell’oppio come analgesico e lo studio delle parassitosi. Anche le malattie reumatiche furono oggetto delle sue ricerche e in queste Ezio individuò le caratteristiche di patologie di tipo infiammatorio.


    I reumatismi risultano frequenti nella storia della medicina bizantina. Abbiamo conoscenza di ben quattordici imperatori che soffrivano di disturbi reumatici. Si tratta di  Costantino II (337-350), Marciano (450-457), Giustiniano I (527-565), Giustino II (565-578), Maurizio (582-602), Foca (602-610), Costantino IV (668-685), Costantino VIII (1025-1028), Costantino IX Monomaco (1042-1055), Alessio I Comneno (1081-1118). Troviamo in questo lungo elenco anche Isacco II Angelo (1185-1195 e 1203-1209), Alessio III Angelo (1196-1203), Giovanni V Paleologo (1341-1376 e 1379-1391) e infine Giovanni VIII Paleologo (1425-1448). Essere colpito dai dolori reumatici sembrava essere una caratteristica costante di chi riusciva ad arrivare al trono imperiale e all’ambita carica di basileus! (24)
    Nonostante la mancanza di dati epidemiologici attendibili sulla frequenza delle malattie reumatiche a Bisanzio il fatto che quattordici su di un totale di ottantasei imperatori, vale dire circa il 16%, anche in assenza di parentela tra di loro soffrissero di malattie simili e in un arco di tempo molto lungo, testimonierebbe di un’elevata frequenza di tali patologie anche nella popolazione della metropoli. Purtroppo alcune parti degli scritti di Ezio furono inquinati dall’esposizione di credenze magiche a cui veniva dato un credito eccessivo. Lo sconfinamento dalla razionalità scientifica alla magia era frequente nella cultura bizantina. Costituiva una valvola di sfogo alla necessità di doversi confrontare con l’enorme numero di scritti e di lavori degli studiosi precedenti che opprimevano il lettore colto come una forma di tutela ideologica da cui era difficile liberarsi. Il ricorso alla magia poteva diventare una scelta originale alla soluzione di un problema utilizzando una risposta che non fosse già stata data in precedenza.
    Essere in condizione di consultare e di leggere su molti argomenti quanto autorevoli personalità del passato avevano elaborato dava origine a un senso di relativa frustrazione. Era un sentimento molto diffuso tra gli intellettuali bizantini, tanto che Teodoro Metochite (1270-1332), potente uomo politico e  acuto e colto enciclopedista, si lamentava di non trovare più argomenti interessanti per le proprie ricerche bibliografiche. Nella sua grande biblioteca ogni risposta pareva essere già stata data a ogni possibile domanda, ogni curiosità era stata soddisfatta al punto che Teodoro affermò sconfortato: “Tutto è già stato scritto e compilato, ogni cosa discussa …”.  Solo la magia e la fuga nell’irrazionale potevano riaprire la discussione. Magia e misticismo che assunsero una ruolo importante nell’ultimo periodo dell’impero (1261-1453) favorite dall’instabilità politica e dal crescere angosciante della presenza minacciosa dei Turchi. (25)
    Alessandro di Tralles (525-605 d.C.) si interessò di malattie nervose, respiratorie e dell’apparato digerente con una particolare attenzione alle parassitosi e all’asma bronchiale che oggi sappiamo essere spesso collegate. La scarsa igiene personale di quei tempi rendeva infatti le infestazioni parassitarie molto frequenti nelle classi più umili. L’interesse per questi animali fu alla base di un suo curioso trattato in tre libri dal titolo di De Lumbricis. Alessandro sostenne con convinzione l’utilizzo del colchicum autumnale per la terapia della gotta. Il colchicum era una pianta originaria della Colchide, una regione oggi divisa tra Turchia e Georgia. Il principio attivo estratto da tale pianta, la colchicina, è stato adoperato anche in epoca moderna nella terapia dell’attacco acuto di gotta.


    Nella sua opera principale, i Dodici libri di Medicina, Alessandro si rivelò un continuatore fedele della tradizione medica ippocratica e galenica. Si dichiarò un seguace della teoria degli umori e dei rimedi basati sull’insegnamento galenico dei contraria contrariis, secondo il quale nelle diverse condizioni patologiche si doveva curare il malato raffreddando il caldo emanato dal corpo, riscaldando il freddo se fosse stato presente, asciugando l’umido e temperando il secco. Con questi nomi generici si indicavano caratteristiche comuni a varie malattie caratterizzate da un eccesso oppure da una mancanza di umori il cui equilibrio avrebbe invece conferito lo stato di salute. Anche Alessandro di Tralles  ricorse a frequenti soluzioni magiche nelle sue terapie quando la tradizione medica classica gli appariva insufficiente  e inadeguata. (1, 11)
    Paolo d’Egina nacque nell’omonima isola di fronte ad Atene nel 625. Intellettuale dai molteplici interessi si specializzò nello studio dell’ostetricia e fu il primo medico che teorizzò e mise in pratica l’assistenza continuativa alle partorienti. Scrisse due trattati andati perduti sulle malattie delle donne e dei bambini. Di lui ci sono giunti sette libri pubblicati per la prima volta a Venezia nel 1528 e che costituiscono un’antologia del sapere medico romano e medievale. Testi che conservano innumerevoli insegnamenti ereditati dall’antichità classica. Le osservazioni personali dell’autore rivestivano un ruolo marginale ammesso con modestia dallo stesso Paolo che scomparve intorno al 690 d. C. (1, 11)
    Una particolare originalità della medicina bizantina era costituita dall’importanza che veniva data alle malattie del sistema urinario e all’indagine delle urine. L’uroscopia divenne un momento importante nel processo d’indagine diagnostica del medico medievale e veniva condotta al capezzale del paziente. Il medico sostava a lungo vicino al letto dell’ammalato osservando attentamente il colore dell’urina, agitandola in un vaso apposito che serviva a valutare la presenza di un eventuale sedimento e perfino assaggiandola, per scoprire se fosse di sapore dolciastro e sintomatica di uno stato diabetico. Attraverso un’accurata descrizione di ogni possibile variazione delle urine i medici bizantini svilupparono una forma di integrazione tra la tradizione classica  e i manuali di medicina di compilazione medievale. (14, 26)
    A Bisanzio l’organizzazione e la regolamentazione dell’esercizio della professione medica riprendeva nelle grandi linee le disposizioni in vigore nella Roma imperiale. Il sistema sanitario bizantino introdusse però un’innovazione importante, l’istituzione dell’ospedale per i malati civili che integrava e andava oltre la rete della sanità militare che veniva di solito privilegiata. I primi ospedali costruiti come luogo di rifugio e di cura per le persone di modeste condizioni economiche furono aperti nell’Egitto del  IV secolo d. C. grazie a importanti donazioni private e all’attività caritativa di numerosi monaci e del clero in cura d'anime.


    Forse è possibile fissare una data approssimativa che corrisponde agli anni intorno al 360 d. C. per quest’innovazione umanitaria così importante nella storia della civiltà umana. Un’istituzione differenziata da quelli che erano stati gli antichi santuari di Asklepio, come quelli di Agrigento, di Epidauro e di Kos, in quanto il ruolo dello stato appariva in questo caso significativo e integrava le azioni religiose e di devozione. In quel periodo l’imperatore Giuliano l’Apostata, preso dal proprio sogno di restaurazione del culto degli antichi dei pagani, si sforzava di entrare in concorrenza con le istituzioni di beneficenza religiose sostenute dai  cristiani. Tra le misure prese per ridare vitalità alle tradizioni della religione politeista vi fu l’invito ai cittadini pagani più ricchi perché destinassero una parte dei loro ingenti  patrimoni alla costruzione di luoghi d’assistenza per i diseredati. Fu in questo momento di emulazione caritativa tra le due religioni, la pagana e la cristiana che nacquero probabilmente gli ospedali. Quando il cristianesimo passò dalle persecuzioni a essere liberamente permesso e praticato, a divenire infine religione di stato grazie all’Editto di Teodosio del 380 d. C., i cristiani poterono implementare senza pericoli la loro ospitalità per i viaggiatori e i bisognosi sopperendo alle funzioni sociali  del grande impero in decadenza.
    Vennero istituiti gli xenodochia, strutture collocate in locali attigui ai monasteri e idonee a ospitare i pellegrini senza che questi disturbassero la quiete dei religiosi intenti a seguire le regole della vita monastica. Le regole erano un complesso sistema di prescrizioni elaborate per indicare una condotta sicura a quanti desiderassero una vita di raccoglimento e di preghiera. La più diffusa di queste fu quella scritta dal monaco egiziano Pacomio (287-346 d. C.), la quale sarà ripresa in Occidente e costituirà la base del monachesimo benedettino. In altri casi gli xenodochia sorgevano vicino alle sedi vescovili oppure lungo le strade di grande comunicazione. Erano di forma quadrangolare, indipendenti e quasi sempre circondati da un muro di difesa con un cortile interno sul quale si affacciavano le diverse stanze. Gli xenodochia ospitarono pellegrini e viaggiatori fin dall’inizio, mentre presero in seguito ad accogliere  poveri, vecchi, orfani e malati provenienti dalle regioni circostanti. Nelle città più grandi alcune di queste istituzioni si specializzarono nelle diverse forme dell’assistenza ai bisognosi, come risulta dal Codex Justinianus del VI secolo d. C., un documento nel quale si parla esplicitamente di orphanotròphia (case per gli orfani), ptochotròphia (ospizi per i poveri) e gerontocòmia (ospizi per gli anziani). (27, 28)


    Nel mondo cristiano si diffuse una critica severa nei confronti dell’ospitalità professionale e laica fornita nelle osterie, le pandochèia o tabernae, che nell’antica Roma erano stati luoghi di ristoro e insieme di esercizio della prostituzione. Come testimoniato dagli scavi di Pompei e di Ostia antica questo abbinamento tra l’alloggio, la ristorazione e la prostituzione era stato molto frequente nell’antichità greco-romana. (29)
    A partire dal IV secolo si fece divieto ai religiosi di frequentare questi locali e alcune personalità autorevoli della chiesa, come Gregorio di Nissa (335-394 d. C.), consideravano l’ospitalità ecclesiastica degli xenodochia come un mezzo di lotta e di concorrenza contro la licenziosità dei costumi e l’avidità delle locande a pagamento. Il duplice ruolo di alloggio per i viaggiatori e di ricovero per i malati rende difficile determinare lo specifico ruolo assistenziale dei singoli xenodochia. Il mondo che circondava queste strutture era segnato dalle istituzioni del grande impero in disfacimento, dalla precarietà della vita materiale, dalle vessazioni continue a cui i ricchi e i potenti sottoponevano moltitudini di poveri e miserabili. Non deve infatti essere dimenticato il fenomeno di massa rivestito dalla povertà lungo lo scorrere dei secoli del Medioevo. (27, 28)
    Soprattutto nel Medioevo barbarico (VI-IX secolo d.C.) la consistenza della povertà tra la popolazione generale arrivò a interessare una percentuale di soggetti compresa tra il 25 e il 40 % delle persone.  Si formò un serbatoio di disperati a cui avrebbero attinto i movimenti e i predicatori che diedero origine alle crociate. Anche nell’impero bizantino i poveri  costituirono  un problema non secondario di ordine pubblico e di disagio sociale nelle grandi aree urbane di Costantinopoli e di Tessalonica, le uniche grandi città  che erano sopravvissute integre alla rovina delle invasioni barbariche. Spesso scoppiavano delle rivolte in seguito alle difficoltà di approvvigionamento dei generi di prima necessità come il grano e la farina, alimenti questi ultimi che venivano venduti a un prezzo calmierato attraverso un controllo statale dei mercati e del traffico commerciale. (27, 28)

     I medici rivestivano un ruolo importante e tutelato a Bisanzio. Oltre a quelli addetti al palazzo imperiale, la cui condizione di privilegio era intuitiva, esistevano nel XII secolo dei veri e propri ospedali cittadini sovvenzionati dallo stato. Non si conosce bene se questa forma di assistenza sia stata influenzata dai nosocomi presenti nelle grandi capitali del mondo arabo, quali Damasco, Baghdad e Cordoba, che rivaleggiavano
con Costantinopoli per il benessere degli abitanti e l’evoluzione sociale, fatto sta che qualcosa di simile esisteva anche nella capitale dell’impero cristiano. (30)
    Un grande ospedale di Bisanzio  studiato dallo storico russo Alexander Kazhdan comprendeva ben cinque sezioni, tra cui una di ostetricia e ginecologia. Erano stati previsti cinquanta posti letto per ogni reparto che vedeva al lavoro due medici titolari, i loro assistenti e un numeroso personale di servizio. I medici si avvicendavano secondo dei turni di lavoro mensili, erano tenuti ad assistere gli stranieri di passaggio e ricevevano dallo stato uno stipendio generoso, l’alloggio e altri benefici legati al loro rango, come l’uso gratuito di un cavallo. (30)
    Poteva sembrare di trovarsi di fronte a una specie di National Health Service in anticipo sui tempi di qualche secolo, tanto che a questi medici statali non era consentito di esercitare privatamente la loro professione senza uno speciale permesso dell’autorità. I medici costituivano una parte privilegiata dell’Intelligentija bizantina e disponevano  di una fonte di reddito sicura, mentre i loro colleghi che operavano in altri ambiti culturali, come i letterati, dovevano dipendere interamente per la loro sopravvivenza dalle donazioni di un ricco protettore. Questi intellettuali più sfortunati erano costretti spesso ad assumere un incarico ecclesiastico fittizio per poter sbarcare il lunario, imitando i chierici occidentali che erano istruiti e prestavano poi la loro opera presso i monasteri e le scholae vescovili. (25)
    Ai medici era risparmiato questo destino umiliante di sudditanza materiale ed economica, mentre l’attenzione per la complessità dell’articolazione sociale e il rispetto dell’equilibrio tra le funzioni e i ruoli delle varie componenti della popolazione costituiva un tratto specifico del mondo bizantino. Queste erano delle caratteristiche che lo rendevano moderno nella sua particolarità e lo differenziavano da quello che sarebbe poi divenuto lo sviluppo del sistema economico europeo occidentale.

Appare singolare notare come all’erede di questo  socialismo bizantino, medievale e autocratico, vale a dire la Russia comunista nata dalla rivoluzione del 1917,  si siano contrapposti per quasi tutto il secolo XX i discendenti dei fautori del libero mercato scaturito dalla rivoluzione
industriale settecentesca. Per una di quelle ironie misteriose della storia, dopo la seconda Roma di Bisanzio, l’ideologia della Russia zarista prima e sovietica poi ha invocato la legittimità della terza Roma, la città di Mosca, quale erede del mondo bizantino e della sua complessa, ordinata e quasi meticolosa struttura sociale. (30, 31)
    Pensiamo al ruolo importante che la chiesa ortodossa e il patriarca di Mosca hanno riacquistato dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica e la ricostituzione della Russia come un’entità nazionale specifica. Un ruolo dialettico e di supporto al potere politico quello rappresentato oggi dal patriarca moscovita che richiama quello della chiesa bizantina e la sua funzione di sostegno e di garanzia della legittimità del potere imperiale. Tuttavia queste sono riflessioni e considerazioni a posteriori, forse ipotesi tautologiche anche se suggestive.
    In questo discorso sulla medicina a Bisanzio dobbiamo sottolineare come il patrimonio di nozioni e tecniche ereditato dal mondo antico non sia stato lasciato in una condizione di contemplazione e di accettazione priva di critica. La vicinanza con gli arabi e il confronto con le diverse culture che Bisanzio dovette affrontare nella sua storia ultra millenaria arricchirono in modo innovativo la medicina bizantina. A testimonianza e gloria di questa deve essere ricordata la gestione sociale della salute pubblica estremamente avanzata per i tempi e che fu sostenuta dai sovrani della metropoli sul Bosforo. Imperatori spesso degni eredi e continuatori della tradizione di Roma antica aggiornata dal cristianesimo. Sovrani consapevoli di essere e di considerarsi gli unici detentori di un messaggio di civiltà e di tolleranza culturale in un indistinto e violento agitarsi di barbarie e arretratezze che imperavano nel vicino Occidente, appena al di là del mare Adriatico. Una visione complessa della medicina quella bizantina,  capace di spaziare attraverso le tre grandi coordinate della propria storia, quella epidemiologica, quella sociale e antropologica e quella tecnica. (30, 31)

   
La visione olistica dell’uomo malato, un approccio culturale di tipo complesso che teneva conto anche di fattori psicosomatici, trovò nella medicina bizantina piena cittadinanza. Consisteva nella ricerca di un’armonia tra anima e corpo come risultato di una corretta terapia, una modalità di cura di cui oggi si percepisce il bisogno nella nostra troppo tecnologica medicina moderna. Basti pensare a quanto venne affermato da un intellettuale e uomo di chiesa autorevole come Gregorio di Nazianzo (329-390 d. C.) nelle sue Epistole, quando sostenne la necessità di sopportare filosoficamente la malattia (Epp. 32, 2; 93, 1; 31, 3.).
    Ora che molto tempo è passato da quei giorni e che possiamo ricordare la fatica profusa per conservare un patrimonio culturale più prezioso degli ori, dei gioielli e delle opere d’arte depredati nei lunghi secoli della storia di Bisanzio da innumerevoli nemici, dobbiamo manifestare una consapevole riconoscenza che spetta a uomini vissuti in tempi difficili.

 
 
 
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